2010

Leonardo Sinisgalli e Il cappello di Carminuccio   

di Eugenio Giliberti

Montemurro è il paese delle mie vacanze infantili, dell’aria aperta e della libertà dopo i mesi di costrizione della vita cittadina riservata e casalinga ; primo luogo dove venire a contatto con la vita vera, quella di fuori.

Per questo - anche per questo - non ho esitato a rispondere all’invito affettuoso e impegnativo di Giuseppe e Rosellina Leone e di Mario Di Sanzo (glorioso portiere della nostra squadra di calcio): creare un’opera ispirata a Leonardo Sinisgalli, il grande compaesano dalla così vasta e importante attività di intellettuale e organizzatore culturale.

Ne ero intimorito. Ma nella nostalgia che anima gli scritti “montemurresi” di Sinisgalli, ho sentito riverberare fantasmi di miei ricordi infantili. Persone che se fossero nate qualche anno prima avrebbero certamente popolato i suoi racconti sullo sfondo di un paese che appariva immoto e lì ho diretto il mio pensiero.

Naturale che tanti fossero i ricordi ma ho scoperto, in fondo, che quelli più vivi e immediati della mia “antica” Montemurro avevano a che fare con il mistero dei personaggi fuori dal comune che popolavano il paese.

Marziuccio dai baffi imponenti, annoverato tra i poveri disgraziati senza arte né parte a carico della comunità e dei suoi familiari, che improvvisamente assurse al rispettabile ruolo di “banditore”(primo “tecnologico” che affiancò un megafono “geloso” alla trombetta di ottone); Rodolfo, l’omone nero (e fragile, come abbiamo scoperto) che, forse per la volpe che portava al guinzaglio, immaginavo domatore di belve in un circo; Carminuccio lo ciuoto detto ’a curricella perché, inseguendo i ragazzini sfrontati che lo prendevano in giro, imprecava e  roteava la cintura (curricella) dei suoi pantaloni; lo strano signore vestito di bianco dall’incedere goffo e tremante (era affetto dal morbo di Parkinson) che girava spesso dalle parti della mia piazza Santa Maria; l’avvocato Cifone, presunto abitante in una grotta nella contrada del Carmine; i misteriosi abitanti del basso sottostante il palazzo Montesano davanti al quale bisognava trattenere il respiro per l’antica abitudine di vivere in promiscuità con i loro animali; Totore lo ciuoto (anche lui) che decretava la fine di epiche partite di calcio in Piazza Santa Maria prendendo il pallone e portandoselo via. Era escluso dalle partite perché non trovava ragione di lasciare ad altri un pallone conquistato. Era più grosso di tutti, aveva grandi denti sporgenti, la bocca socchiusa e non si ragionava con lui. L’azione era imprevedibile e sempre perentoria: nulla da fare per recuperare il supersantos, bisognava fare un’altra colletta e comprarne un nuovo.

 

Creature divine, forze  della natura non riducibili alle regole del vivere comune, mettevano paura a noi piccoli, per la non prevedibilità del loro agire o per il loro apparire diversi e strani.

Ma grazie a questi “terribili” personaggi il  ritorno a Montemurro mi immergeva in una sorta di personale mitologia che riappare ancora oggi quando la memoria, ormai così più vivida per il passato remoto, ritorna affettuosa a quei lunghi soggiorni estivi.

Per la mia ignoranza circa la differenza “etniche” di cui qualcuno oggi ci convince, non sentivo “locale” questo nostro piccolo improbabile mondo, animato da Carminuccio o Totore o Marziuccio, tanto che alla mie prime letture di Pavese non avevo nessuna difficoltà a pensare alle Langhe come alla Val d’Agri,  a Viggiano come al paese di Canelli e “prima che il gallo canti” mi sembrava ambientato dalle parti del pollaio delle signorine Cugno.

In questo universo di  fantastici personaggi Carminuccio si staglia decisamente sugli altri per una sua particolare predilezione.

Mia nonna utilizzava i suoi servizi perché forse era un uomo forte, non so bene, i dettagli sono sbiaditi, ma certo è che a volte incrociavo Carminuccio col suo cappello bisunto nell’ingresso di casa in attesa di ricevere il premio del suo lavoro. Non so in quanto potesse consistere il suo compenso ma lo distingueva da qualsiasi altro lavoratore la forma nella quale pretendeva gli fosse corrisposto. Come noi bambini, e in particolare come me - minore tra tre -, non apprezzava il valore reale del denaro ma solo la sua quantità “fisica”. Lo aveste pagato con un biglietto esagerato da 1000 lire, si sarebbe sentito certamente insoddisfatto: volete mettere un solo pezzo da mille lire con 200 pezzi da cinque lire?

Immagino dovesse essere difficile procurarsi tutte quelle monete da porgere poi a Carminuccio avvolte in un grande fazzoletto che lui prendeva con delicatezza per poi riempirvi il piccolo bollitore  che portava sempre con sé. Per tutta l’estate si mettevano da parte in casa le monete più minute, quelle che mano a mano l’inflazione rendeva più rare, per poter provvedere al bisogno.

L’ingenuità di Carminuccio impersonava la resistenza di un mondo antico che dava valore al poco. Ed era irrisa da noi, ingenui desiderosi di futuro.

Eugenio Giliberti