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Eugenio Giliberti

Pompeiorama


<<<< In poco più di due anni producono complessivamente nove mostre ed innumerevoli eventi: comunicazioni di artisti, presentazioni di libri, convegni, dibattiti filosofici, eventi didattici fanno della Casina Pompeiana una palestra della sperimentazione artistica contemporanea.

Il programma inizia con una mostra personale,dedicata ad un unico significativo lavoro di Carlo Alfano, artista scomparso nel 1990 che non  aveva ancora ricevuto alcun omaggio dalla sua città, nonostante fosse unanimemente riconosciuto come l’artista più grande della sua generazione.

Si comincia da lì per stabilire un rapporto con la direzione politica e culturale della città sulla base di cose molto concrete e nella direzione del disegno dell’ambiente della ricerca artistica cittadina secondo le sue caratteristiche di località e di cosmopolitismo.

Il “disegno” va avanti con le mostre successive, trovando aggiustamenti successivi e sviluppandosi come una concatenazione di eventi e di ambienti, tanto da coinvolgere nel progetto numerose presenze straniere (da Stephan Huber a Bill Baklay, a Zoe Leoudaki, a Robert Gshwantner a Petra Peter).

 

Nell’estate del 1999 una mostra dal titolo “Giro di Boa” presenta un importante contributo dello studio italo tedesco degli architetti Dumontet e  Zaske. Attraverso Pompeiorama, la città acquisisce un intelligente progetto di ristrutturazione della Casina Pompeiana, oggi realizzato.

E’ un esempio della direzione del lavoro di Pompeiorama.

 

L’ultima mostra di Pompeiorama, nella primavera del 2001, è “Napoli Others”, sono invitati due “emigrati”: Saverio Lucariello (F), artista e Marussa Gravagnuolo, gallerista (Pièce unique, Parigi) che invita Pierre Thoretton. Mostra memorabile ed “affettuosa”, chiude un ciclo (dalla città al mondo alla città).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Seguono due testi, pubblicati nel primo numero della rivista (MeltimgPot spciale /1) - Ricerca di complicità e necessità dell’altro di Daniela Lancioni, curatrice romana che ha affiancato Pompeiorama nel primo anno di attività e – trittico,  la conversazione con cui Eugenio Giliberti, Mario Franco e Nino Longobardi dichiarano gli intenti del loro progetto. I

Infine, Napoli Others, un testo, firmato da Giliberti, Franco e Longobardi, pubblicato nell’ultimo numero (Pompeiorama 4 / 7) della primavera del 2001.

 

E’ evidente la distanza temporale tra gli interventi, che proprio per questo motivo possono meglio mettere in luce  lo sviluppo del pensiero

 

 

PO1”25 ottobre 1990” - Ricerca di complicità e necessità dell’altro

 

 

Daniela Lancioni

Ricerca di complicità e necessità dell’altro sono due dei moventi emersi dal colloquio che Mario Franco, Eugenio Giliberti e Nino Longobardi hanno imbastito per tradurre in parole la loro iniziativa. Dal colloquio è derivato un testo che non credo miri ad assegnare un significato unico ed inequivocabile ai loro intenti. Lo dimostra il fatto che hanno scelto di comunicare attraverso la forma del dialogo. Forse rispondendo «meno al bisogno di capire che al bisogno di intrattenersi con qualcuno in modo largamente comunicativo e umanamente soddisfacente». La citazione è da Carla Lonzi, che nel 1969, anno in cui Carlo Alfano dà avvio all’Archivio delle nominazioni, pubblicava il suo celebre Autoritratto, il libro nato dalla raccolta e dal montaggio di discorsi fatti con alcuni artisti. Nella premessa, la critica d’arte allora trentottenne, che da lì a poco si sarebbe dedicata esclusivamente al femminismo, scriveva «L’opera d’arte è stata da me sentita, ad un certo punto, come una possibilità di incontro, come un invito a partecipare rivolto dagli artisti direttamente a ciascuno di noi» (C. Lonzi, Autoritratto, Bari, De Donato, 1969, p. 5). Carlo Alfano non compare tra i dialoganti di Autoritratto, ma l’osservazione di Carla Lonzi è perfettamente rispondente al suo modo di operare. «Ogni mio lavoro» ha dichiarato Alfano in una intervista pubblicata nel 1976 «è un dialogo con l‘“altro”» (Interview mit C. Alfano di H. Stöcker nel catalogo Carlo Alfano, Galerie Art in Progress, München, 1976, p. 60). E nell’Archivio delle nominazioni, in maniera più evidente che in altre opere, è messa in scena la dialettica dell’incontro.

Nel considerare l’iniziativa di Mario Franco, Eugenio Giliberti e Nino Longobardi è seducente seguire le tracce di una affinità tra la loro azione e la prassi creativa di Carlo Alfano. I tre artisti napoletani hanno chiesto al Comune della loro città la gestione della Casina Pompeiana, uno spazio adibito a mostre temporanee, situato all’intero della Villa Comunale, per tenere una serie di eventi espositivi che prevedono la partecipazione di altri artisti. Nel progetto inviato lo scorso ottobre a Renato Nicolini, allora Assessore all’Identità, hanno definito l’iniziativa «una mostra ad espansione» e ne hanno steso un programma di massima da mettere a punto progressivamente, avvalendosi di partecipazioni e contributi diversi. Questo invito, rivolto soprattutto ad altri artisti e storici dell’arte, ma estendibile ad ogni cittadino, è stato preceduto da un altro appello: dedicare l’apertura della rassegna a Carlo Alfano. L’artista napoletano di maggior rilievo della sua generazione, nato nel 1932 e prematuramente scomparso nel 1990, al quale la sua città non ha ancora dedicato una grande mostra antologica, «come sarebbe parso a tutti che accadesse, che una città civile sapesse fare» è detto nel progetto citato, ora deliberato dalla Giunta Comunale. Gli ideatori dell’iniziativa hanno invitato a collaborare Flavia Alfano, figlia di Carlo, che ha proposto di lavorare intorno ad un fatto concreto: il restauro dell’Archivio delle nominazioni. Si è offerta, quindi, di esporre l’opera, una delle due parti che la compongono come già fece Carlo Alfano in alcune occasioni, insieme ad una selezione di disegni e di documenti inerenti al lavoro, conservati presso il suo archivio.

Stabilito questo, i tre artisti non si sono ritirati dalla scena, si sono assunti, invece, la responsabilità dell’iniziativa, con il carico di significati che la loro presenza comporta. Perché Franco, Giliberti e Longobardi rinunciano ad esporre le proprie opere per ricordare il lavoro di un altro artista scomparso? Che cosa significa questa comunità di tre artisti, tanto diversi tra loro per storia e sensibilità, che agiscono in nome di un quarto ridotto al silenzio? Sono portata a giudicare la scelta sul piano di quelle esistenziali. Hanno voluto sperimentare la possibilità di non concentrare la comunicazione esclusivamente sull’espressione del sé, si sono guardati intorno ed hanno cercato l’altro. Per usare un termine ricorrente nel lavoro di Carlo Alfano si sono posti sulla «soglia». Soglia come metafora della volontà di conoscenza. Non la scelta di una posizione laterale, ma il protendersi in avanti, la percezione del confine, l’intuizione del mistero che ha generato la separazione dei corpi, il tempo, la vita. Tradotto in termini di esperienza quotidiana significherebbe che l’artista si rifiuta di dare valore esclusivo al parametro dell’unicità, riconosce la presenza dell’altro, non esclude la possibilità di collaborazione. Longobardi nel dialogo parla di «complicità», Giliberti dice di avvertire ora, diversamente da prima, che «la forza del suo lavoro non è messa in discussione dalla visibilità del lavoro di altri artisti», Franco usa la parola «comunità». Queste affermazioni sottintendono il desiderio di un rapporto paritario, di un interlocutore adeguato, la ricerca di un faccia a faccia, con gli altri artisti, con le istituzioni, con il pubblico. Attitudine diversa dalla gamma di relazioni teorizzate negli anni Sessanta. Dai gruppi di artisti per i quali ogni individuo poteva innescare un processo creativo a Sol LeWitt che riconoscendo il momento della creazione artistica nell’intuizione, dichiarava l’esecuzione dell’opera una faccenda meccanica demandabile a chiunque. Il progetto per la Casina Pompeiana, nel suo insieme, punta sul principio della partecipazione. Si configura, inoltre, lasciando a vista la struttura complessa che lo sostiene. Tra i distinguo percepibili il più evidente è quello tra la messa a punto di questo evento e le opere d’arte dei tre ideatori: i film di Franco, i recenti oggetti in cera di Giliberti, i dipinti di Longobardi. Non si assiste alla teatralizzazione del lavoro collettivo, come è accaduto spesso in anni passati e come più di recente si verifica ad esempio a Roma, nel lavoro di Cesare Pietroiusti, né, con l’organizzazione di questa serie di mostre, si è inteso teorizzare la possibilità che l’arte possa offrire un «servizio». Direzione, quest’ultima, rappresentata a Napoli da Ninì Sgambati e intrapresa in molte opere presenti nell’ultima edizione di Sculpture Projects a Münster: l’orinatoio con vista sulla cascata, di Franz West, per citare chi da anni opera  sul confine tra arte ed oggetto d’uso, o il servizio di traghetto sul lago, di Tadashi Kawamata. La presenza di Carlo Alfano e quella prevista di altri artisti non sono strumentali ad una messa a punto linguistica. La volontà di ridefinire il corpo dell’arte entra necessariamente in gioco, ma ad essere posta in primo piano è la presenza dell’altro. Non potrebbe capitare a Franco, Giliberti e Longobardi, quanto è accaduto a Piero Manzoni, quando Franco Angeli rifiutatosi di salire su un piedistallo per essere firmato da lui e trasformato in opera d’arte, si limitò, per prudenza, a regalare all’amico una sua scarpa.

L’iniziativa di Franco, Giliberti e Longobardi va distinta da quelle nate in nome dell’idea diffusasi poco dopo la seconda metà del secolo in corso, che l’arte debba uscire dallo specifico del suo linguaggio per comparire, nomade ed imprevedibile, in altri territori, tutti, indistintamente, ad essa accessibili. Va detto, però, che da quella visione, portatrice di una libertà utopica, ma reale nel campo dell’arte, questa idea napoletana deriva, come tutte le altre espressioni dalle quali abbiamo cercato di differenziarla. Non ho trovato altro modo per introdurla che riferirmi alla categoria dell’esistenziale, quella che, nel migliore dei casi, è modellata sulle intuizioni, i ragionamenti, le emozioni, dell’arte. Quindi, sebbene abbia distinto le opere d’arte di Franco, Giliberti e Longobardi, dal loro progetto per la Casina Pompeiana, devo riconoscere che da quelle i tre artisti non possono prescindere. Longobardi nel colloquio dice di immaginare lo spazio che accoglierà il lavoro di Alfano come una grande scultura, Giliberti di quello stesso spazio ha realizzato un modellino in scala che ha il sapore di un’opera. Insieme hanno progettato i tavoli di metallo e  le strutture per poggiare i televisori. Un altro movente ha determinato l’iniziativa della Casina Pompeiana: la necessità dell’azione politica, dell’intervento dell’artista nel vivo delle questioni sociali. Gli ideatori hanno avvertito il dovere, una questione morale, dice Longobardi, di celebrare Carlo Alfano e il loro progetto combatte l’incapacità di dedicare all’artista scomparso una grande mostra antologica. Per questo il titolo doveva essere Carlo Afano è morto il 25 ottobre 1990, un atto di accusa per aver permesso che in quella data fosse dichiarata morta anche la sua opera. A questo titolo, emozionale per noi, troppo doloroso per Flavia Alfano, si è poi rinunciato.  Il compito che si pongono gli artisti e sul quale hanno discusso a lungo sopratutto Franco e Giliberti,  è nella tradizione dell’intelettuale organico: «il modo di essere del nuovo intellettuale» scriveva Antonio Gramsci «non può più consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, “persuasore permanente”» (A. Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Torino Giulio Einaudi Editore, 1949, p. 7). Dalle ultime elezioni politiche, gli intellettuali, che, inutile tentare di dimostrare il contrario, hanno avuto in Italia dal dopoguerra in poi maggiori affinità con gli ideali della sinistra, si pongono diversamente nei confronti delle istituzioni. Mario Franco nel colloquio ricorda i tempi dei circuiti alternativi, Giliberti crede che le condizioni poste dall’attuale assetto politico possano ora rendere possibile una forma di collaborazione tra artisti ed istituzioni. A queste chiedono di impossessarsi della loro idea e di trasformare la Casina Pompeiana in uno luogo di incontro e di sperimentazione dedicato agli artisti.

Al richiamo di Mario Franco, Eugenio Giliberti e Nino Longobardi, per ora hanno risposto Renato Nicolini, firmando l’ultima delibera del suo assessorato napoletano, Flavia Alfano mettendo generosamente a disposizione le opere del padre e la sua competenza, Graziella Lonardi offrendo all’iniziativa l’organizzazione dei gloriosi Incontri Internazionali d’Arte, Peppe Irace le pagine dello stoico MeltingPot, Angela Tecce interloquendo sulle questioni da loro poste, tutti coloro che hanno collaborato alla realizzazione dell’evento, Francesco Di Schiavi, Gianpiero Esposito, Antonio Ruffo ed io. Chiamata in causa ho cercato di vedere chiaro, capire e sentire senza fretta. Pormi e porre loro delle domande. La mia presenza è la trascrizione del loro lavoro in questo testo.

 

 

 

 

 

Trittico

 

Eugenio Giliberti

La prima cosa che salta agli occhi, se parliamo di questa iniziativa, è che l’aver preso in prestito il problema di restaurare il lavoro di Carlo Alfano, ha messo sul piatto della bilancia un peso molto forte. È inutile negare che siamo venuti in contatto con una problematica più complessa di quella per cui all’inizio abbiamo fatto qualche colpo di telefono, deciso di vederci e di tirar fuori un’idea. Credo sia importante mettere a fuoco il rapporto fra questa prima tappa del lavoro e quelle successive.

 

Nino Longobardi

Sentiamo il problema di Carlo come un’urgenza, che ora dobbiamo risolvere.

Per quanto mi riguarda è un fatto morale. Non necessariamente metto in gioco la mia carriera. Ma l’immagine di Carlo mi appartiene. E questo potrebbe essere un lavoro su di lui, chi può contestarlo? Parte dei miei lavori sono stati anche suggeriti da lui, mi sono formato sulla sua idea, sulla sua percezione dell’arte.

Sono stato il suo assistente, lo conosco da sempre. Il mio lavoro e quello di Carlo rappresentano due momenti estremamente diversi, che in questo progetto coincidono e qui sta il fatto morale

 

Mario Franco

Secondo me la vicenda di Carlo Alfano è sintomatica per Napoli. Una città, come dice La Capria «autoreferenziale» che apparentemente parla soltanto di se stessa, solo apparentemente però, perché in realtà è una città che dimentica in continuazione, che cancella la sua storia.

Noi tentiamo di contraddire questo stato di cose. Scegliamo Carlo perché lo abbiamo conosciuto bene, è morto da poco ed è stato velocemente messo da parte. Ma non dimenticato. Flavia ha ragione quando chiede gesti concreti, come quello del restauro di un’opera. In una qualsiasi città per un pittore come Alfano si sarebbe istituito un premio, allestita una grande mostra, promosso una serie di studi. Questa è la normalità. Il titolo che abbiamo scelto, Carlo Alfano è morto, significa che in un certo senso è morto anche nelle nostre coscienze e solleva il problema che qui a Napoli la normalità non succede.

 

Eugenio

Non dobbiamo dimenticare che stiamo puntando alla realizzazione di un progetto più ampio: non proponiamo soltanto la celebrazione di Alfano, lavoriamo anche perché Napoli si doti di uno spazio dove la ricerca artistica contemporanea abbia cittadinanza. Che non sia semplicemente lo spazio della galleria, pure essenziale. Ci sono attività che le gallerie per statuto non hanno il dovere di fare, che rientrano invece, nei compiti delle istituzioni  che dovrebbero giocare al rimando con il lavoro delle gallerie: la galleria fa la prima scelta, poi lo spazio pubblico che interviene ne rafforza il lavoro. (... ) Non mi interessano i motivi che hanno condotto questa città ad essere «autoreferenziale», che la inducono ad ignorare la propria storia. Mi interessa fare qualcosa per oppormi a questo stato di cose. Vedo la nostra iniziativa come una possibilità di opposizione, ma non contro un avversario. Credo che l’avversario sia soltanto la parola che non annuncia il fatto, la parola, cioè, alla quale siamo sempre stati abituati.

 

Mario

Vorrei precisare i miei timori . Ripensando alla passata esperienza personale, ho paura delle supplenze. Un’operazione di supplenza sono stati per anni i cineclub che colmavano l’assenza di cineteche pubbliche . In questo caso informiamo sull’arte, sulla sperimentazione, sui giovani, mentre questo compito spetterebbe alle istituzioni. Spesso poi, accade che il mercato copia le tue idee, travisandole, involgarendole, privando le istituzioni della necessità di appropriarsene. Il nostro intervento non dovrebbe essere di supplenza, ma di opposizione, di lotta, per far capire che questa iniziativa deve diventare pubblica. Dopodiché noi ci faremo da parte. 

Non condanno il mercato, ma credo debbano esistere degli spazi in cui il mercato non c’entra. Lo spazio della sperimentazione, per definizione, non può essere uno spazio di mercato.

 

Eugenio

C’è una frase di Elisabeth Schweeger in questa rivista [“Journal 1. Progetto arte”, Milano, Edizioni Mudima, luglio 1995] che mi interessa molto: «le aziende sovvenzionate dallo stato sono l’unico spazio libero in cui è ancora possibile pensare in modo non commerciale ed in cui la riflessione su noi stessi quale necessità della nostra civiltà, del nostro progresso, rappresenta l’obbiettivo fondamentale». Secondo me c’è una natura pubblica ineliminabile nella cultura. Ci stanno abituando a pensare che tutto deve rendere. Questo non è mai stato il pensiero dell’arte. L’arte ha reso, qualche volta rende, ma non può essere motivata dal bisogno di rendere.  Nasce per  necessità.

Uno spazio come quello che stiamo progettando dovrebbe essere al riparo dal bisogno di produrre denaro e dovrebbe riconoscere una posizione centrale alla necessità d’espressione.

 

Mario

Uno spazio libero dalle preoccupazioni del mercato, dove possano nascere cose che rendono facilmente, o che non rendono affatto. Questo intendiamo, quando diciamo che deve essere uno spazio pubblico.

 

Eugenio

Credo che l’attuale congiuntura politica sia favorevole perché oggi questa nostra proposta abbia un senso.

Per la Casina Pompeiana pensiamo ad una programmazione piuttosto lunga: due anni, dieci mostre, una serie innumerevole di eventi, una proliferazione di iniziative. Dovremmo organizzare un gruppo di persone che lavori su questi progetti e che sia poi utilizzabile dall’amministrazione comunale.

 

Mario

Negli anni settanta non si parlava altro che di circuito alternativo, il nemico era lo stato delle multinazionali. Un’analisi che forse anticipava i tempi. Pensate a cosa è adesso la globalizzazione, il grande mercato. Ma la realtà è sempre più complessa di qualsiasi schematizzazione ideologica o di qualsiasi tentativo di individuare immediatamente i nemici. Non ci sono più nemici precisi.

 

Nino

Credo che faccia parte della natura dell’artista tirarsi fuori dalla ressa. Nella Casina Pompeiana non andiamo a produrre oggetti, andiamo a formare delle energie, del pensiero. Poi speriamo che l’iniziativa possa prendere altre strade, ma questa è una cosa che non ci interessa.

Può darsi che cerchiamo delle complicità.

 

Mario

L’artista riscrive le regole. Non è uno che si accontenta del mondo così com’è, vuole rifarlo, riplasmarlo. Si fabbrica un ambiente, inventandolo, dipingendolo. Operando nella realtà, intervenendo su quello che ci circonda.

 

Nino

In questo senso complicità. A me interessa la complicità con i giovani artisti, mi interessa capire che cosa fanno, mi interessa indagare il loro mondo. Non mi interessano i cittadini, non ci sono ancora arrivato, ci arriverò.

 

Eugenio

Mi piacerebbe che nella Casina Pompeiana si coltivasse quel patrimonio recente dell’arte, che non é l’isolamento, la lateralità, ma é l’autonomia. Mettere in piedi una macchina nella quale una serie di soggetti agisce in maniera diversa. Costruire una specie di fabbrica dei pensieri, delle idee, delle cose, dei fatti. Immagino di avere finalmente un posto a disposizione, che ha una pessima storia, da reinventare insieme ad altri artisti invitati ad esprimersi nella maniera più forte possibile. Immagino che lì maturino degli individui più attenti all’arte. La Casina può diventatare il luogo in cui cresce questa cosa, che non so distinguere bene, cui non voglio dare un titolo. La sento come una cosa che mi fa piacere veder crescere, mi fa piacere immaginare.

L’arte ha bisogno di potere,  ne abbiamo sempre parlato, non ci dobbiamo scandalizzare. Vogliamo l’artista potente, il gallerista che ha potere, un lavoro anche potente. Io credo che noi abbiamo un punto di vista necessario e non capisco quando gli artisti si sentono inutili. Però credo che il nostro punto di vista, assolutamente necessario, abbia bisogno di maggiore visibilità. Ho l’impressione che in questo momento, la forza del mio lavoro non sia messa in discussione dalla visibilità del resto dei lavori prodotti dagli altri artisti, come pensavo negli anni scorsi.

 

Mario

Pensi ad una comunità.

 

Eugenio

Non penso ad un gruppo.  Credo nell’autonomia dell’arte. Credo che l’arte abbia la sua ragione di esistere, di organizzarsi socialmente.

 

Mario

Ho usato il termine comunità e non gruppo.

 

Nino

C’é anche una richiesta di spettacolarità. Anche quello è un problema serio. Secondo me attraverso operazioni del genere si può in qualche modo cercare di avere consensi.  La richiesta di spettacolarità è evidente perché l’esperienza in solitudine non basta più, nessuno la considera. Non ti seguono, non ci arrivano, quindi secondo me bisogna mettere insieme una macchina che dia in qualche modo spettacolo, creare un circolo, anzi un circo per l’arte.

In realtà tu fai una battaglia con te stesso. Poi cerchi dei riscontri all’esterno, va bene se trovi degli amatori, degli appassionati. Sarà una visione romantica la mia, ma considero lo studio dell’artista come una arena.

 

Eugenio

Probabilmente un artista riesce a lavorare veramente per se stesso nel momento di maggiore maturità. Ma darei fiducia al sentimento individuale. Ci possono essere altre spinte. Persone che fanno arte, poesia anche bella, partendo dall’avidità. Non credo ci sia alcun limite. L’arte può nascere dalle cose più alte come dalle più basse. Il problema secondo me sta nella capacità della persona di dare qualità a quello che sta facendo, qualsiasi ragione o motivazione lo spingano. Ultimamente mi sono esercitato ad usare la parola necessità, mi è capitato diverse volte di volerne puntualizzare il senso, soprattutto quando si trattava di contrastare con le posizioni di artisti che parlano  di arte relazionale, di arte come servizio.

 

Mario

Mentre Eugenio parlava, pensavo che la parola necessità  in latino si dice usus. Nel significato di necessità c’è anche l’idea di come utilizzarla. È la necessità che aguzza l’ingegno, determina l’ispirazione ed il suo divenire.

 

Nino

Chi sa quali siano le necessità dell’artista e quelle che gli affibbia la società. L’orecchio tagliato di Van Gogh, lui magari se ne fotteva, le parrucche di Warhol. Beyus aveva un grande desiderio di comunicazione e questo lo portava a fare il clown, si doveva travestire con cappelli, cappottoni per poter comunicare.

 

Mario

Van Gogh scriveva dell’orecchio tagliato a suo fratello, si ritraeva con la benda. Il corpo fa parte del lavoro dell’artista per lo meno dalla fine del Settecento in poi. Porta con sé il problema della necessità dell’altro, la necessità di uscire fuori.

 

Nino

Ci sentiamo capaci di prendere delle legnate.

 

Eugenio

In realtà ce la sentiamo perché crediamo di non correre più tanti rischi, non perché non ci sia più niente da perdere, ma perché qualcosa è cambiato.

 

Nino

Tutti questi discorsi per giustificare che noi andiamo a lavorare  in uno spazio pubblico e che ci danno quattro soldi?

 

Mario

Il fatto da giustificare è quello della perdita di tempo, credo che la domanda da porsi sia: ci conviene? Invece di fare i vostri lavori, vi conviene mettervi a realizzare il progetto della Casina? Sarà un esperimento riuscito se nel momento in cui funziona lo affideremo alle istituzioni pubbliche. Si presterà ad equivoci ed a strumentalizzazioni se verrà condotto con l’idea di delineare una sorta di tendenza.

 

Nino

Vedo questa operazione in un certo modo. Sento il fascino dello spazio. Il progetto stesso lo immagino come una grande scultura, come una grande scultura sociale, in qualche modo un lavoro.

 

Mario

Per me è stato molto emozionante vedere la scultura che Eugenio ci ha mostrato. L’ho visto prendere le misure, l’ho sentito parlare di questa cosa, e di fronte al plastico della Casina Pompeiana con il progetto di allestimento, ho capito che si trattava di un’opera. Non solo la scultura, il plastico, ma in qualche modo tutta l’operazione. Ma dobbiamo ricordarci che l’impegno politico, sociale che c’è in questa operazione va oltre quello artistico.

 

Eugenio

L’intellettualità napoletana è allenata alla dissuasione. Qualunque cosa fai è guardata con una tale petulante precisione che a volte l’unica maniera per stare assolutamente tranquilli è non fare niente. Stiamo parlando di un’iniziativa che rischia di suscitare qualche opposizione. Ma questo accade sempre nel lavoro artistico, anche se chiuso, nascosto, ha sempre una forte natura pubblica. È un veicolo di comunicazione, una maniera di esporsi, con tutti i rischi che questa comporta.

 

Nino

Kounellis sente l’esigenza di insegnare, Beuys ha fatto la stessa cosa. Noi una cattedra non la vogliamo, ma sentiamo la necessità di occupare uno spazio che non sia quello dello studio.

 

Mario

Non credo agli artisti che lavorano attraverso gli allievi. Nessun gruppo può vivere senza una condizione di parità, penso a quelli che hanno portato trasformazioni profonde, dalle avanguardie storiche fino al Gruppo 63. Se ci si aggrega intorno a situazioni preesistenti, non motivate dalla necessità, si creano surrogati artistici, si innescano equivoci, o meglio aberrazzioni. Sarebbe terribile se Eugenio e Nino pensassero di esprimersi attraverso l’operazione, sottintendendo una difficoltà creativa, non riuscendo più ad esprimersi davanti alla tela o agli oggetti che fabbricano.

 

 

Eugenio

Costruiamo uno spazio aperto verso il futuro, partendo però dall’identificazione di un ambiente. Un ambiente che cerchiamo di definire con la complicità di chi ci accompagna e che si preciserà attraverso la pratica del confronto. Per il momento abbiamo eletto a nostra complice Daniela. Qualche giorno fa Nino puntualizzava la necessità di spingere gli interventi  che si terranno in questo spazio ad esseri estremi, forti. Gesti che abbiano una loro unicità anche nel lavoro degli artisti che parteciperanno all’iniziativa.  L’operazione è rivolta inizialmente verso l’ambiente di riferimento napoletano. Dopo aver immaginato la carriera artistica totalmente al riparo da questa idea di località, sento oggi fortemente l’esigenza di misurarmici. Forse nel momento in cui la globalizzazione é un fenomeno attivo da molto tempo, nasce la spinta alla ridefinizione del territorio.

Il mondo oggi ha sfondato i confini ed è diventato molto più grande.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giliberti, Fraco e Longobardi

- NAPOLI OTHERS - testo pubblicato in Pompeiorama 4/9

 

In Art Diary, il termine "others" indica le sezioni dedicate al territorio che circonda l'ambiente cittadino, visto come centrale rispetto ad un indistinto "altrove" che ad esso fa riferimento. "Others" è quindi di solito la provincia che circonda la grande città, ma per estensione si può dire che riguarda genericamente l'altro", "l'altrove... Una condizione di estraneità, di extra-territorialità… Ma nella definizione stessa è incorporata la contraddizione: definito come "altro", l'estraneo non lo è più completamente. È indispensabile sottintendere una "relazione",  in cui è necessario ed implicito il riconoscimento di una "provenienza".

In questo senso sono "others" Saverio Lucariello e Marussa Gravagnuolo: "esterni", perché impegnati professionalmente e culturalmente altrove, fuori da Napoli, ma "napoletani", per formazione, per le relazioni che conservano con la città e per l'attenzione con cui sono seguiti da qui.

Ovviamente siamo portati a pensare alla lontananza come "nostalgia" (pensiamo al termine come l'ha usato Tarkovskij: un sentimento vissuto nel segno di un amore che continuamente, consumandosi, non fa che alimentare il desiderio, nel rivivere una sua inestinguibile metempsicosi). Forse è una nostra sovrapposizione. Forse non c'è nessuna nostalgia. Ma forse la nostra è una nostalgia non verso un luogo, ma verso delle persone… Ci dispiace che siano lontane, anche se apprezziamo il loro lavoro e ci fa piacere il loro successo… Però ci mancano, e mancano alla città; anche se ci accorgiamo, mentre lo diciamo, della giusta dimensione della loro scelta e del loro essere lontani. Vogliamo per un attimo rivederli con noi, per poterli poi lasciar continuare "altrove", alla ricerca di affetto e consenso da parte di un pubblico senza pregiudizi e senza nazionalità.

Siamo però convinti che anch'essi sono "soggetti" di quell'autoritratto collettivo che Pompeiorama persegue, per definire l'ambiente della ricerca artistica napoletana, fin dalla prima mostra della Casina Pompeiana nel dicembre 1997.

Come uno storico dell'arte progetta il passato, partendo dal presente, così grazie agli artisti lontani è possibile guardare ciò che più da vicino ci circonda, trovando conferme del nostro pensiero teorico e artistico. L'artista deve sopportare anche un principio di contraddizione, documentare quell' "altro" che sfugge alle linee autoreferenziali che hanno organizzato la lettura del "prossimo". E' un principio vitale. Vorremmo creare un "ufficio artisti smarriti" per documentare quella complessità e quel pluralismo in grado di parlarci dell'andamento articolato dell'arte. Questa volta, appunto, seguendo le tracce di Marussa e di Saverio, vogliamo riflettere sul "nomadismo culturale", parte integrante dell'eclettismo stilistico della poetica contemporanea.

Con questa mostra pubblichiamo la nostra rivista in modo "autarchico", lasciando (provvisoriamente) i partner che ci avevano affiancato, prima "Melting Pot" e poi "Electa Napoli". È una decisione che abbiamo dovuto prendere durante la travagliata ed incerta preparazione della mostra, avvenuta in un momento di "instabilità" dei nostri referenti pubblici abituali a causa delle dimissioni del Sindaco. Non abbiamo avuto modo di rispettare i tempi e le modalità di un'edizione tradizionale. Speriamo che il prodotto finale, comunque, non risenta della nostra "fretta". Purtroppo (ne parlavamo diffusamente nell'editoriale della rivista precedente e non vogliamo ripeterci) la provvisorietà nella quale siamo costretti a muoverci ci costringe a fermi e repentine ripartenze, obbligando noi, i nostri collaboratori, gli altri artisti e tutte le persone coinvolte a vario titolo nel progetto a stressanti tour de force, attese ed incertezze. La qualità è una condizione obbligatoria. Il primo referente di Pompeiorama. Per questo miracolosamente i cerchi si chiudono, a dispetto di scadenze elettorali, burocratici tentennamenti ed altre difficoltà "ambientali", quali minacce invidiose, pigrizie di critici locali (spesso in preda a sciatici sentimenti per difendere gli occhi casti, loro e dei lettori dei giornali cui collaborano,  dall'imbarazzante visione dell'arte che non conoscono).

L'istituzione, pur con tante azioni di buona volontà ed alcune realizzazioni notevoli, non riesce ancora a prendersi pienamente sul serio; non riesce, per esempio, a disfarsi del vecchio concetto della "sala da esposizioni",  sfogatoio di begli spiriti, per cui la programmazione culturale non è la costruzione di progetti, ma la tenuta di un registro di democratici "turni", in cui programmaticamente si fa riferimento alla stessa formula: "facciamoli contenti". Eppure, tutto ciò nonostante, e grazie all'attenzione della critica italiana specializzata ed all'interesse di artisti e curatori, Pompeiorama è ormai un punto fermo ed importante nel panorama nazionale. E  quindi può succedere che proprio durante "Che c'è di nuovo 2", la nostra mostra precedente, Sergio Risaliti abbia notato Petra Peter e l'abbia invitata a partecipare ad una mostra che si inaugura in questi giorni al Palazzo delle Papesse a Siena. E siccome Siena  e Weimar sono gemellate, Petra è la prima artista coinvolta nel progetto di cooperazione culturale tra le due città. Enzo Umbaca con il suo anamorfico "campo di calcio" disegnato su una collina, ha invece suscitato l'interesse e l'entusiasmo di una scolaresca che gli ha inviato una serie di lettere e ci ha dato fatto riflettere sulla rappresentazione mediata della realtà all'interno della scuola, nella quale è in atto una silenziosa rivoluzione. Il fatto ci ha dato lo spunto per un incontro sui problemi dei rapporti tra arte e scuola, uno degli appuntamenti collaterali che come sempre integreranno la nuova mostra di Pompeiorama.