Eugenio Giliberti


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Da Meccaniche delle meraviglie 2008

Testo di Mauro Panzera

 

Enrico Scrovegni che offre l’oratorio alla Vergine  è certamente un episodio di alta pittura del ciclo giottesco padovano, ma segnala anche un pensiero estetico di una qualche importanza. Infatti al termine del lavoro pittorico l’autore distoglie lo sguardo e dipinge il contenitore come fosse un oggetto, un oggetto speciale certamente perchè è un dono. Stessa operazione farà il visitatore che giunto al termine della favola bella, di fronte al Giudizio Universale viene invitato a ricordarsi di essere all’interno di un edificio, ospite sempre gradito.

Pensavo esattamente a questa relazione artisticamente rappresentata di interno / esterno in un’occasione ben diversa: in fase di allestimento di una precedente biennale di scultura di Carrara, quando gru muletti montatori, tutto è in movimento a volte inconsulto, in un ambiente appartato ma non nascosto dell’ex Convento di San Francesco, Eugenio Giliberti, artista invitato ad esporre alla XII° edizione, La contemporaneità dell’arte, stava modellando in plastilina l’edificio contenitore della manifestazione. A mostra inaugurata, l’opera di Giliberti – ora una scultura e non più un dipinto ad affresco – dall’interno ci invitava a pensare uno sguardo distaccato, a volo d’uccello sull’intero complesso monumentale.

Per l’artista questa modalità operativa corrisponde ad un “gesto di buona educazione”, con una formula che andrà indagata con attenzione. Ma conta innanzitutto osservare che tali “gesti” hanno accompagnato nel tempo l’avventura artistica di Giliberti; perciò abbiamo parlato di modalità operativa e non di intervento occasionale.

Dovessi sinteticamente precisare la natura dell’artisticità di Giliberti, convocherei due modalità distinte, ma in lui conviventi: l’opera  680400 quadratini colorati, in cui domina il bisogno di esaurire quantitativamente possibilità matematiche; e l’oggetto platonico, riproposizione di una cosa in scala 1:1 sottratta della propria funzione pratica. Come a dire: il fare consiste anche del pensiero del fare stesso. L’eticità sorvegliata dalla ragione.

Ma il fare muove dal qui e ora, muove da una consapevolezza fenomenologica, oggi diremmo da un contesto che diviene patrimonio e non limite da superare nell’astrazione universalizzante. Allora non lo spazio categoriale, ma il luogo della relazione: quale? Il fare dell’artista e il luogo che accoglie l’opera, cioé quello stesso fare. Questo è il cardine della modalità operativa.

Il modello in plastilina diviene la materializzazione di questo pensiero, esattamente. Si colloca sul confine tra opera e non-opera, è il luogo generatore che non può contenere le opere ma è la visione esterna del luogo che contiene o genera le opere. Così facendo però, qualifica la nozione di luogo in senso forte, formale, ricostruendo la dinamica architettonica di interno / esterno, senza che il fare si muti in gesto aulico: il materiale è povero, l’esecuzione è sommaria, verisimile, matematicamente approssimativa.

Riunire ora questa serie di modelli in plastilina, fare questa dichiarazione di autonomia per la prima volta, equivale ad autorizzare il racconto di una autobiografia in cui protagonista è sempre la relazione al fare e mai la persona individua, insomma l’emozionalità umana, l’artista.

Ho citato all’inizio il caso del Convento di San Francesco a Carrara, ma la serie risale al Progetto Leopardi a Napoli, alla mostra presso Castel Sant’Elmo sempre a Napoli, all’Italsider di Bagnoli, alla Galleria Milano a Milano, infine alla Masseria Varco presentata in occasione della personale tenuta a Roma presso la galleria di Giacomo Guidi. Solo in occasione dell’esposizione presso il Castello di San Terenzo l’artista aveva proposto solamente tre modelli in plastilina corrispondenti ai tre castelli fortificazioni presenti nel Golfo di Lerici, ma la modalità espositiva tendeva a proporre una riflessione sul paesaggio marino. In tutti gli altri casi, il modello era accompagnato da una selezione di opere che apparentemente nulla avevano a che fare con la riproposizione del luogo contenitore. Ma la modalità operativa applicata alle singole opere equivaleva con il fare utilizzato per la realizzazione del modello in plastilina. Insomma il medesimo fare, il gesto proveniente da un corpo, e la sostanza riflessiva che si applicava di volta in volta alla forma secondo percorsi proprii.

Il percorso sembra essere dalla vita alla forma, nella consapevolezza che ogni gesto vitale è già di per sé forma in quanto contiene una elaborazione mentale non come momento separato da enfatizzare, ma da assecondare fino alla sua naturale conclusione. Ecco allora che il segnare il qui e ora diviene controllo di autoriflessione, e l’azione ripetuta genera una mappa geografico-storica del procedere artistico. E’ possibile allora immaginare che la modalità segnata dalla produzione di modelli architettonici in plastilina riveli, all’interno delle complesse procedure messe in atto dall’artista, un momento meta-riflessivo, la fase dello specchio in cui vedersi dall’esterno, uno sguardo a distanza. La buona educazione è la capacità di vedersi con gli occhi degli altri, è una performance di autocontrollo e insieme di rispetto e valorizzazione di sé; è l’emergere della natura sociale e quindi il momento dell’eticità.

Mai e poi mai questi modelli vanno intesi come progetti, maquettes: non sono studi per la costruzione di una mostra, non sono studi di spazi per opere a venire, non prefigurano alcunché. Nella casualità del navigare segnano la coincidenza di un luogo e di un tempo, un incontro, una relazione e lo sguardo che tutta l’abbraccia dall’esterno.

Questi oggetti/corpi sono belli proprio nella loro definizione di segno precario, di approssimazione esatta ad una visione sintetica. Riconducono in immagine una filosofia della vita che è sostanza della ricerca artistica di Eugenio Giliberti. Se dovessimo tradurre in lingua questo pensiero, ci si aprirebbe innanzi l’universo delle metafore, pericoli retorici giacché non siamo poeti. Taciamo.

 

Si vorrebbe invece insistere sulla natura speciale di questa esposizione, che segna un passaggio nelle modalità espositive dell’artista. Questi benedetti modellini in plastilina (e a volte in cera rossa) solo in un’occasione già rilevata, alla Biennale di Carrara, si caricavano dell’onere di rappresentare l’artista invitato ad esporre. In altre occasioni espositive stavano accanto ad altre opere e qui, in questa relazione, si poteva rilevare la loro eccentricità. Ma ora è chiaro che la serie viene accettata ed esposta come una autonoma modalità operativa in ambito artistico. Non possono infatti a nostro avviso essere confusi con gli oggetti platonici per via della riduzione a scala che li rende “rappresentazioni”, laddove quegli oggetti sono platonici in quanto privi sì di funzione, ma in forma di “presentazione” – se si vuole aggiungere, con effetto d’apparizione.

L’unico avvicinamento proponibile è con un’opera recentemente esposta a Roma, Stanza dei giochi, che è la riduzione esatta di un ambiente di lavoro dell’artista a Rotondi. La declinazione al plurale del termine apre all’universo del senso. Misura e colore rinviano alla figura del fanciullo e dell’infanzia, ma nella realtà è lo studio dell’artista. Il luogo stesso è stato teatro di un altro gioco, la vestizione dello schermidore in preparazione di un duello mai avvenuto, ma evocatore di duelli trascorsi, raccontata tramite una videoregistrazione.

La differenza resta su un punto capitale: la stanza è luogo, il modello è un oggetto impenetrabile, è la sagoma di un luogo, ma non il ricordo di uno sguardo ma di una somma di sguardi teoricamente ordinati. Mima l’atto di conoscenza del reale, e lo ripropone in immagine.