Conversazione di Eugenio Giliberti con Lorenzo Bruni in occasione della mostra: oggetto, scultura, parola, disegno (Contemporary Cluster - Roma)

Intervista realizzata

 

LB: Il tuo lavoro esplora da sempre il dialogo tra le cose come se puntassi a produrre una sorta di assemblaggio tra idee, pensieri, oggetti quotidiani disparati ed elementi della storia dell’arte altrettanto disparati senza prediligere una tecnica artistica sull’altra. Tale libertà, che ti sei concesso e conquistato con grande coerenza decennio dopo decennio del tuo lavoro, sembra che si fondi su un elemento costante: ovvero nella certezza che un oggetto possa, in certe circostanze, creare e produrre spazio (spazio mentale e fisico) come per esplorare una via alternativa al modello della scultura classica e con cui individuare un punto di incontro con l’attorno e la presenza dello spettatore. Penso che tu riesca a farlo sia con la serie degli “Oggetti Platonici”, ma anche con i quadri riferiti alle liriche di Leopardi fino ad altre opere come quelle legate alla potatura degli alberi. Cosa c’è di vero in questa mia analisi sul tuo lavoro e cosa ne pensi? Con quale dei tuoi differenti cicli secondo te hai affrontato questa riflessione sull'oggetto?


Eugenio Giliberti: Siamo alla fine degli anni ’80, quando al centro della mia ricerca posi l’estroflessione di una superficie monocroma. Cambio di stato di una superficie dipinta dalla quiete del piano alla tensione della curvatura estroflessa, aspirazione allo spazio. Conseguenza ne furono, in principio, le grandi “lenti” che oggi puoi vedere nel Museo del ‘900 di Castel Sant’Elmo, oggetti di puro ingombro, delicatissimi nelle loro superfici dipinte e lucidate ad encausto, praticamente ingestibili, ed infine, gli “Oggetti Platonici”, dove la pittura, liberata del suo supporto  - come esplosa - travasa e si condensa in oggetti tridimensionali la cui voluta impersonalità di oggetti comuni richiama piuttosto che la loro specifica qualità pratica ed estetica una loro forma - concetto.

 

LB: E’ molto interessante che tu faccia risalire la tua riflessione sugli “Oggetti Platonici” alla pratica della pittura invece che a quella della scultura…come è interessante che tu ritrovi in queste forme degli archetipi di oggetti apparentemente abitudinari e comuni come un vaso o un tappeto…puoi dirmi di più?

 

Eugenio Giliberti: L’inutilità e l’ingestibilità pratica degli “Oggetti Platonici” obbliga lo spazio a curvarsi, ad accettare una sua riduzione di agibilità a vantaggio della nuova presenza. Questi passaggi e la successiva esperienza dei “quadratini colorati” (i miei quadri astratti a partire dai canti leopardiani), posso dire che siano la base dell’accumulazione di oggetti e concetti che rappresentano oggi il mio lavoro. Una base tutta “interna” sviluppata in astratto alla luce artificiale dei miei studi poco luminosi. Una pratica disciplinata e “autistica" alla quale ritorno ciclicamente come in un respiro dai miei progetti “esterni”, come un ritmo respiratorio ha oggi la mia vita pratica tra la città e la campagna. Interno ed esterno si alternano e si contaminano costruendo spazi fisici dove immaginare altre esistenze e relazioni e spazi mentali dove realizzare utopie. 

 

LB: Da come parli sembra che siano opere che anelino ad un incontro con il mondo e una messa in opera nello spazio…

 

Eugenio Giliberti: Non esiste opera senza il pubblico. E’ intrinseca all’opera la necessità del riconoscimento. L’opera ha potere di opera quando un pubblico la riconosce come tale. Però attenzione. Quando tu parli della mia ricerca come una via alternativa al modello della scultura classica non sono del tutto concorde. Possiamo invece parlare di una ricerca di un artificio capace di catturare il pubblico in quel limite tra incanto e coinvolgimento intellettuale ed emotivo. In quanto alle certezze, la sola che ho è nella strada che percorro o, forse, ai margini della quale ho ricavato il mio punto di osservazione, insieme al mio angolo buio dove riposare il pensiero ed esercitare le mie discipline.

 

LB: Grazie. Hai chiarito perfettamente la tua posizione. E’ quello che punti a ottenere in effetti con gli “Oggetti Platonici”. Quando li hai esposti la prima volta e quale è stato il lavoro successivo?

 

Eugenio Giliberti: Ho lavorato alla serie degli “Oggetti Platonici” per un paio d’anni. Ne esposi un primo esemplare, “tappeto rosso”, in una collettiva al Maschio Angioino a Napoli nel 1996 dal titolo Mutoidi a cura di Massimo Sgroi. Era un lavoro che infrangeva un confine: dall’ostinato rifiuto della figurazione alla rappresentazione di oggetti riconoscibili. Nel 1998 in un tour di mostre in Canada mostrai alcuni “Oggetti Platonici” insieme all’opera più grande della serie dei quadratini colorati “680400 quadratini colorati”. Mi interessava l’opposizione netta tra queste particolari opere, ma anche la loro convivenza come articolazione di un pensiero.

 

LB: Questo tipo di ricerca a che conclusione ti ha portato...quale è la riflessione successiva a cui giungi?

 

Eugenio Giliberti: Le opere immediatamente successive furono una serie denominata “LP”, che sta per Lavoro Politico. Lo spunto fu il venir meno del finanziamento pubblico del “progetto Pompeiorama” che avevo promosso e curato con Nino Longobardi e Mario Franco.

 

LB: Cosa è il “progetto Pompeiorama”? Di cosa si tratta? In che anni?

 

Eugenio Giliberti: Il progetto Pompeiorama, riconosciuto all’epoca come primo programma espositivo pubblico gestito da artisti in Italia, aspirava alla composizione di un “autoritratto collettivo” dell’ambiente artistico napoletano in un’ottica non inventariale localistica, ma nella sua natura di ambiente aperto e cosmopolita. Si articolò in 10 mostre, la pubblicazione di una rivista e  40 eventi diversi tra la fine del 1997 all’inizio del 2001.

 

LB: Torniamo al lavoro “LP”, al “Lavoro Politico” di cui mi stavi parlando...

 

Eugenio Giliberti: Si. Dopo la fine di quella esperienza e in occasione di una mia mostra personale distribuii un volantino in cui stigmatizzavo l’atteggiamento indifferente e strumentale di parte del mondo politico sottolineando: l’arte non è un insieme di oggetti curiosi, (…)  l’arte punge.  

 

LB: Come ha reagito il pubblico? Quale è la riflessione sul ruolo dell'artista che hai tratto in quel momento?

 

Eugenio Giliberti: L’iniziativa del “Progetto Pompeiorama”, anche grazie alla notorietà dei miei “soci” ebbe una buona risonanza, sembrò fosse in grado di formare un pubblico e, soprattutto, la nostra scelta di non esporre nelle mostre che producevamo rassicurava gli altri artisti che in più riprese hanno dimostrato di sentire quel progetto come casa propria. In quel caso dimostrammo che si poteva uscire dal ruolo subordinato che le teorie sul “sistema dell’arte” assegnano all’artista.

 

LB: Quali sono i lavori successivi che realizzi dopo questo momento, diciamo topico?

 

Eugenio Giliberti: Da lì, infranto ormai il limite della non figurazione, con la stessa tecnica esecutiva di derivazione pittorica, produssi quattro grandi metaforiche “zanzare” e poi una serie di “grandi decorazioni” pittoriche in cui la zanzara da grande oggetto tridimensionale diventa piccolo elemento proliferante, pervasivo di ambienti di ogni dimensione.

 

LB: Parlami meglio di questi lavori partendo dalla  prima versione scultorea..dove le hai esposte?

 

Eugenio Giliberti: Esposi le grandi zanzare in sole due occasioni: nel 2000 in “Castelli in aria”, una grande mostra internazionale basata sul lavoro delle gallerie napoletane negli ultimi 10 anni del XX secolo che si tenne negli ambulacri del Castel Sant’Elmo e, nello stesso anno, in “Futurama”, mostra curata da Marco Meneguzzo e Raffaele Gavarro nel Museo Pecci di Prato.

 

LB: Parlami adesso della versione delle “zanzare” che sono trasposte sulla parete come a formare una decorazione astratta...l'intento era quello di creare una sensazione di irritazione...

 

Eugenio Giliberti: Piuttosto che irritazione, “sorpresa”, nel constatare che la rappresentazione dell’oggetto identificato come fastidio universale, disposto geometricamente sulle pareti, possa catturare lo sguardo svelandosi nella sua grazia. Coincidenza dei contrari. Metafora di un’arte “irritante”.

 

LB: Adesso vorrei chiederti qualcosa riguardo ai tuoi lavori pittorici apparentemente astratti, che sono quelli oggi più noti, attorno alla figura del grande poeta Giacomo Leopardi.

Eugenio Giliberti: Da molti anni sono impegnato con variabile intensità a un progetto urbano nella mia città. Il progetto si chiama “voi siete qui, vico Pero, Giacomo Leopardi – progetto di artista abitante”. Si tratta di un’opera di arte pubblica complessa che coinvolge molti soggetti privati e istituzionali, che prende spunto dalla mia condizione di dirimpettaio diacronico di Giacomo Leopardi. In sostanza il progetto riguarda la persistenza del ricordo del passaggio del grande ospite nella comunità della piccola enclave urbana (detta il vicolo paese) che ha al suo cuore la sua abitazione e, insieme, la ricostruzione dei luoghi e dell’ambiente umano al suo tempo. Leopardi ha trascorso a Napoli gli ultimi 4 anni della sua vita e gli ultimi due proprio in vico del Pero, dove io abito, dove morì il 14 giugno del 1837. Mi sono accostato al personaggio senza alcuna ambizione critico-letteraria. La mia attenzione è concentrata sulla sua vita pratica, sul rapporto che aveva con le persone e il luogo e le sue miserie, i suoi debiti. La sua violenta avversione ai “nuovi credenti”, i redenti intellettuali napoletani, ex oppositori dei Borboni, obbedienti al richiamo paternalistico di Ferdinando II.

 

LB: Eri interessato solo al Leopardi uomo o anche poeta?

 

Eugenio Giliberti: Nelle ricerche compiute fu una grande sorpresa la scoperta delle “polizzine leopardiane“. Un quadernetto, custodito presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, che presenta alcune serie fittissime di numeri sormontate da titoli (della natura degli uomini, teorica delle arti, delle lettere ec, - parte speculativa - parte pratica, ecc.). Si tratta delle “polizzine non richiamate”, indici tematici composti da Leopardi per rendere agevole estrapolare dalla raccolta cronologica dello Zibaldone tutto quanto riguardi i principali argomenti delle sue riflessioni. Ne avevo visto fugacemente delle riproduzioni fotografiche nel catalogo pubblicato per il 150” anniversario della sua morte dall’editore Macchiaroli (1987).

 

LB: Come agisce a livello non solo concettuale o poetico, ma formale e metodologico la presenza di Leopardi, con queste polizzine, nel tuo lavoro?

 

Eugenio Giliberti: Prima ancora di conoscerne il significato mi aveva colpito l’affinità estetica dei preziosi foglietti con i miei primi appunti sulle combinazioni dei colori (sorta di anima numerica dei quadri detti dei “quadratini colorati”) e, attribuendo arbitrariamente un colore ad ogni cifra, composi quattro quadri intitolati come le polizzine: “trattato delle passioni; “teorica delle arti ,lettere, ec”; “della natura degli uomini e delle cose”; “memorie della mia vita”  disponendovi in griglie regolari le combinazioni di colore corrispondenti ai numeri annotati nelle polizzine. Alla corrispondenza tra numeri e colori, grazie alla collaborazione di Stefano Silvestri e Michelangelo Pepe, musicisti e studiosi di musica elettronica, si aggiunse poi la corrispondenza sonora. Parlo di “Carillon”, dove una delle 48 sculturine componenti l’animazione tridimensionale “volo di un omino giallo”, fissa nell’attimo dell’atterraggio gira su un piccolo piatto rotante comandato da un inverter e collegato alla registrazione della composizione sonora ricavata dalla “teorica delle arti, delle lettere ec.”

 

LB: All’astrazione geometrica sovrapponi l’astrazione operata anche dalla matematica, ma anche dalla musica. Una forma di poesia della tautologia introversa?

 

Eugenio Giliberti: Il progetto “esterno” rimbalzava, per così dire, all’interno della pratica appartata dello studio creando altri ambienti e possibilità.

 

LB: Ti chiederei adesso di approfondire i temi e le modalità del tuo lavoro pensando anche alla tua ultima opera in senso cronologico. Si tratta di un lavoro pittorico dal titolo “Sopra il ritratto di una bella donna” (2025), titolo che scaturisce dal testo di un canto leopardiano e che esporremo nella collettiva a Roma assieme ad altre opere come i solidi platonici di cui parlavamo prima o la “Chaise longue del contadino colto” del 2023...

 

Eugenio Giliberti: Si. I quadri gemelli “sopra il ritratto di una bella donna” del 2025 ripropongono una nuova corrispondenza leopardiana. Questa volta non nei numeri, ma nella composizione letteraria che mi ha particolarmente colpito per la sua inaspettata sensualità. Nei due quadri, per ogni lettera della composizione ho stabilito arbitrariamente la corrispondenza con un colore estratto dall’archivio dei colori fabbricati e impiegati nei miei lavori nel corso degli ultimi 30 anni. Così in essi il testo del canto leopardiano si nasconde e si presenta in una sua doppia traslazione matematico - coloristica. In una nuova possibilità di esistenza.

 

LB: Fantastico. Questi due quadri gemelli sono allo stesso tempo la sintesi della tua pratica che eserciti da tanti anni sulla scomposizione in colori delle poesie di Leopardi, ma allo stesso tempo segnano un momento differente. Qui le pause, le lettere che sono ancora visibili sulla superficie anche se minimamente aprono a una dimensione di inaspettato che invece nei cicli precedenti era del tutto escluso per via di una composizione geometrica assolutista. E' così? Continuità e discontinuità rispetto ai cicli precedenti che prendono le mosse dalla poesia di Leopardi?

 

Eugenio Giliberti: Le novità arrivano improvvise e imprevedibili. In ogni ciclo di lavoro mi sono sentito proiettato verso un suo compimento ma ogni volta, prima del “compimento” si è presentata una nuova idea, una nuova possibilità. Così la mia rinuncia a occuparmi di letteratura nell’incontrare il personaggio Leopardi è transitata prima nella somiglianza formale delle polizzine con i mei primi schemi numerici delle combinazioni di colori per poi, grazie alla sensualità di “sopra il ritratto di una bella donna” si è verificata un’ulteriore novità. Non so se si tratti di un salto o di un semplice scarto di lato. Suonerà strano, in effetti, di parlarti di novità nel mio lavoro a settant’anni. Sono stato spesso molto impietoso con artisti cui riconosco il contributo alla costruzione collettiva della cultura artistica a pochi anni della loro attività dove un prima è formazione e un dopo è solo ripetizione. Credo di aver ragionato troppo poco sull’argomento. Mi dichiaro incapace di capire il mio decorso.

 

LB: Adesso vorrei chiederti qualcosa di più sulla “Chaise longue del contadino colto” del 2023. Anche questa è un’opera che si inserisce nel ciclo leopardiano? Come è nata e perché?

 

Eugenio Giliberti: Nella mia ultima mostra, “materia Prima - la mia vita in campagna”, che ho realizzato a Napoli da Dino Morra, ho riprodotto nell’allestimento il contrasto tra l’interno, la vecchia stalla quasi buia della masseria Varco, dove fabbrico i miei colori e dispongo le griglie delle combinazioni al riparo da ogni distrazione, indifferente al contesto, e l’esterno, il meleto annesso alla masseria, di cui mi occupo e di cui seguo negli anni il lento evolvere delle forme con una serie di opere denominate database. Pur non sapendo dove l’avrei allestita avevo abbastanza chiaro il progetto di mostra. Sui muri della galleria si sarebbero contrapposte le opere combinatorie della serie dei quadratini colorati e gli 86 disegni a matita di Database 2021/ 2022, il continuo mio vagare tra i due piccoli mondi, il respiro di cui ti parlavo.

 

LB: Cosa rappresentano gli 87 disegni di Database?

 

Eugenio Giliberti: semplicemente i “ritratti” a matita di 87 piante del meleto rappresentati come apparivano tra l’autunno e l’inverno 2021 - 2022

 

LB: ...e l’oggetto/opera: “Chaise longue del contadino colto”.

 

Eugenio Giliberti: Mentre lavoravo alle opere che avrei esposto, ebbi l’occasione di recuperare in una casa di campagna lo scheletro disastrato di una vecchia chaise longue di acero. Riparata alla meglio, vedendola nella sua grazia rustica pensai che potesse rappresentare la sintesi della mia vita in campagna: l’esterno rurale, nello scheletro ligneo della chaise longue recuperata nella casa di campagna, e l’interno dello studio, la piccola fabbrica dei colori e dei numeri, in una sua “tappezzeria” impraticabile, dipinta ad encausto con gli stessi 10 colori dei quadri combinatori.

Nella mostra La chaise longue del contadino colto, disposta davanti a uno dei quadri combinatori, “guardava” in direzione della serie di 87 disegni di Database. Era il raccordo tra le due serie, la

rappresentazione di quel respiro.

 

LB: Magnifica questa immagine di un’opera che si rende la rappresentazione di un respiro come connettore di due mondi, di due realtà. Forse questa è la stessa condizione che tu affidi alle opere su carta definite paesaggi e di cui esponiamo una, assieme alle altre opere degli artisti della collettiva, come per ampliare cosa intendiamo oggi per disegno e per disegnare. E’ così?

 

Eugenio Giliberti: Avevo programmato di produrre una serie di 25 pitture su carta in cui i 10 colori dell’ultima serie di quadri combinatori comparivano in coppie di bande verticali di circa 7 cm di larghezza, diversamente posizionate sui fogli secondo un certo ordine. Per eseguire questi lavori dovevo utilizzare delle “maschere” che, disposte opportunamente, permettevano di realizzare delle bande dai bordi molto precisi. Ad ogni cambio di colore appendevo le maschere non più utilizzabili   al grande tavolo da disegno dello studio, Per abitudine conservo per un certo tempo i dispositivi temporanei che utilizzo nel processo di lavoro. Spesso non ne faccio niente ma ora non vedevo l’ora di terminare il lavoro programmato per metterci mano. Sentivo che potevano dirmi qualcosa. Così, al momento opportuno, le ho composte in coppie specchiate dello stesso colore disposte in orizzontale. Alludono vagamente a orizzonti, a paesaggi, talvolta a navi. Sono opere involontarie, ottenute per scarto, che devono la loro esistenza a un’azione di pura sensibilità. Per larga associazione possiamo dire che anch’esse sono opere che connettono. La razionalità dell’opera programmata con la sensibilità che approfitta del caso.

 

LB: Mi interessa molto la tua idea di essere attratto per queste opere all'idea di non volontarietà. Come mai e come mai proprio in connessione con la pratica dell'opera su carta che si interfaccia con una tradizione antica come quella del paesaggio?

 

Eugenio Giliberti: Capita di scoprire aspetti non premeditati delle azioni compiute, delle cose dette o fatte. Si tratti dell’errore, o dell’effetto collaterale di una pratica pensata e controllata, quando ho la confusa sensazione che qualcosa di inatteso possa rivelarsi, prendo tempo, aspetto e mi pongo la domanda: accogliere o respingere l’imprevisto?

Chi può vedere queste opere o qualche immagine di esse potrà capire: c’è sempre una linea mediana che richiama l’orizzonte, e le campiture irregolari dei colori elementi di natura. Il paesaggio mi si è rivelato, io l’ho solo accolto. Forse perché mi vengono alla mente certe composizioni pittoriche minori in cui l’elemento volontario della figura è ambientato nello scenario fantastico e involontario della pietra paesina. Se ne facevano piastrelle preziose per i monetieri o altre composizioni. Qualche volta l’artista, ritenendo l’opera della natura già completa in sé, rinunciava ad aggiungere il suo intervento sulla lastra di pietra paesina.

 

LB: La descrizione di questi lavori su carta dal titolo paesaggi ci riporta al punto di partenza legato all'evocazione/concretizzazione del paesaggio mentale e fisico attivando lo spazio stesso in cui sono inserite. Mi sembra una chiusura del cerchio eccellente. Grazie per le tue risposte...anche se mi rimane un ultimo dubbio da scogliere...quale è per te il ruolo dell'artista oggi? E questa idea si è modificata nei decenni passati?

 

Eugenio Giliberti: Posso dire del mio percorso, che prende avvio nella fase del grande riflusso degli  anni ottanta. Ero stato militante e in quell’orizzonte non mi era stata concessa alcuna velleità individualistica ma mi era molto chiaro il mio ruolo nel mondo. Con la fine delle illusioni rivoluzionarie, la mia urgenza era la ricerca di senso. Dovevo cercarlo in me perché il senso del mondo era svanito. Era il tempo di scavare e non di andare.

Un periodo caotico, energie compresse e mancanza di appigli culturali adeguati richiesero tempo per trovare una strada. Da lì ho maturato diverse esperienze, interpretato, da artista, ruoli diversi, ho guardato verso l’esterno con l’ansia di tornare a guardare dentro a porte sprangate e sono stato al chiuso del mio studio col la certezza di dover tornare nel mondo. Mi piace pensare che il ruolo dell’artista sia quello di esercitare una sua naturale attitudine alla distanza, una sorta di condizione straniera. Capacità di guardare dal di fuori ciò in cui è immerso per farne oggetto della propria originale interpretazione, personale e spiazzante racconto.