Questo testo è stato scritto per un volume curato da Antonio Dentale che inizialmente doveva raccogliere testimonianze degli artisti attivi a cavallo del '68. Successivamente il lavoro prese una piaga diversa trasformandosi in un sorta di grande raccolta di testimonianze di artisti ed architetti napoletani anche al di fuori della cerchia generazionale immaginata in un primo tempo.


Io, l’Arte e la politica degli anni sessantotto

 

Il mio sessantotto dura un giorno. Primo liceo scientifico, uno dei primi giorni di scuola.

Al richiamo della campanella la folla di ragazzi in attesa non si muove. Nessuno entra, si forma un corteo. Dal quartiere collinare del Vomero, per la prima volta forse, faccio esperienza delle vie di Montesanto che scivolano ripidamente verso il centro città. Qualche studente distribuisce dei foglietti di carta stampata alle persone che si fanno da parte al nostro passaggio. “Nostro”.

Alla testa di quel corteo, che sarà il primo di moltissimi, c’erano tra gli altri due ragazzoni dell’organizzazione neofascista “giovane Italia” e sarà l’ultima volta che li vedrò senza sentirli “nemici”.

 

Non a caso ho virgolettato le due parole che sintetizzano quell’inizio di esperienza che accomunava me a molti coetanei, appartenenti a una generazione che non aveva avuto il tempo di formarsi prima e che nell’esperienza del movimento ha compiuto la propria adolescenza e la propria formazione culturale (approssimativa, per lo più).

Nostro non connotava qualcosa che appartenesse ad una cerchia ristretta, alla famiglia, alla classe agli amici.

Nemici non erano i fantasmi  delle guerre che avevano insanguinato tutte le generazioni precedenti e di cui facevamo esperienza attraverso la storia e la profusione di film di guerra americani della nostra preistorica televisione ad uno e poi a due canali.

 

A tre o quattro anni ero il miglior artista della mia breve cerchia. Da questa escludo mio padre, che ha sempre dipinto per passione ma che metterò a fuoco più tardi nella qualità di pittore, quando già ero capace di distinguere la professione dal diletto. E’ di suo pugno la data, 1964, scritta con penna biro sul rovescio del mio primo quadro ad olio. Ho 9 anni. Sono solo quattro anni prima.

 

In effetti tutta  la storia del “68” si consuma per me e per “noi” in alcuni giri temporali brevissimi.

 

All’epoca del mio primo corteo avevo tredici anni, ero un artista, disegnavo, dipingevo, manipolavo plastilina e argilla, avevo preso per la coda anche la moda dei gruppi musicali e suonavo la batteria in un “complesso” insieme a mio fratello maggiore e a qualche suo compagno di scuola. Mi era piaciuto pensare di fare il portiere di calcio e, come musicista, avevo scelto il ruolo del batterista . Miei erano i ruoli che “restavano” [1]. Da lì, forse, ho sviluppato un certo costante  senso di responsabilità sull’insieme e uno sguardo un po’ esterno alle cose - il portiere, per gran parte della partita, guarda dal di fuori il suo svolgimento, il batterista accompagna con attenzione ma,   tranne che in  stacchi e assoli, non è mai protagonista diretto; come artista, prendo nota, osservo e descrivo, mi ispiro alla vita degli altri.

 

Non ci interroghiamo sul ’68 con il calendario alla mano; ciò non di meno la distinzione tra chi era già in piena coscienza nell’anno che doveva essere solo quello delle olimpiadi di Città del Messico e chi è venuto subito dopo, come me, credo resti importante.

Resta importante perché questa circostanza ha radicato in noi ultimi una certa perenne sensazione di essere in attesa di qualcosa, di approvazione, di coinvolgimento, il ruolo di chi attende il proprio momento mentre fuori si gira quello degli altri, dei fratelli maggiori.  Insomma, la sensazione di arrivare sempre quando la tavola è già apparecchiata.

Questa situazione produce attivismo, molto spinto. Per senso di inadeguatezza; necessità di essere all’altezza nel campo degli altri e,disperata, di creare il proprio.

Sono riuscito a recuperare una visione artistica degli anni sessantotto (uso quest’espediente paragrammaticale per dare all’oggetto della nostra discussione la dimensione temporale che gli spetta) alla luce di ciò che era rimasto sulla scena qualche tempo dopo. E sono certo di avere così una visione sommaria e poco “colta”. Per questo preferisco scrivere di come uno come me, artista in fasce fino allo scoccare del richiamo della militanza politica e poi di nuovo artista allo scadere del tempo concessoci per fare la rivoluzione, poteva vederla senza alcuna pretesa di farne la “storia”.

D’altronde, a dispetto della sua prevalente componente intellettuale,  il ’68 è fortemente anti culturale in molte sue manifestazioni. La contestazione della prima della scala del 7 dicembre 1968 sarà molto più simpatica al movimento della decisione di boicottare la biennale del cinema da parte dei giovani registi che rifiutano premi e competizione.

Signor Rossi[2] visto con gli occhi di un ragazzo proveniente da esperienze cattoliche o comuniste,  infervorato nella scoperta (- riscoperta) vocazione rivoluzionaria, nella difesa dei più deboli, non apparirà quell’opera rilevante che indubitabilmente ci appare ora, anzi, gli darà ai nervi come un’odiosa manipolazione di un soggetto debole, come un ulteriore episodio di sfruttamento sociale.

 

Alla  sedicente avanguardia politica il mondo dell’arte appariva opaco, anzi, trasparente.

E’ proprio del ‘68 la famosa mostra “arte povera + azioni povere” degli arsenali di Amalfi. Ed è  evidente come quegli anni di dibattito artistico vedano con l’Arte Povera uno dei movimenti più rilevanti della seconda metà del XX secolo.  Diversi tra gli artisti di quel movimento, e comunque di quella generazione, si sentirono vicini alle avanguardie politiche e spesso contribuivano  generosamente, per quello che potevano, anche al loro finanziamento. Ma il sessantotto come sentiva la presenza di questi compagni di strada?

Gli artisti sono costruttori di “immagini” ma quelle immagini sono funzionali alla rivoluzione?

I poeti servono alla rivoluzione?

L’arte dice di sé una verità incomprensibile e inutilizzabile  per le necessità di immediatezza comunicativa della politica. Anche nelle sue forme più apparentemente semplici ,l’arte cerca in direzioni  verso cui la politica, anche quella rivoluzionaria, non è in grado di seguirla.

 

Sono abituato a dire agli artisti più giovani  che la trappola in cui tutti cadono all’inizio del proprio percorso è quella di credere nella vitalità di quello che appare attuale.  Tutte le volte che un movimento, un certo modo di fare arte occupa media, musei e gallerie di mezzo mondo, crediamo di assistere in presa diretta alla nascita di qualcosa, ma ci sbagliamo. Quasi sempre i movimenti costruiscono nell’oscurità. Crescono al riparo di altri successi, dicono il meglio e il nuovo prima che ce ne si accorga. Al momento che il mondo - e il mercato - sono maturi per il loro lancio hanno già detto tutto, hanno perso la loro carica “sovversiva” ,  non possono che invecchiare.

I tempi della politica, possono apparire gli stessi: i movimenti  politici si preparano attraverso un lavoro sotterraneo di lunga durata poi d’improvviso avviene qualcosa, si rompe una diga e il movimento dilaga. Vero, ma la qualità del dilagare è completamente diversa. Nel dilagare il movimento acquisisce forza e moltiplica soggetti, richiama e coinvolge i più intelligenti, li fa crescere e si rimodella su loro. Il lavoro di preparazione, durato anni, si salda in continuità con l’affiorato, mettendo i piedi per terra, prova la sua efficacia e  si rimodella; si fa cinico e tradendo, spesso, la “dottrina” politica che lo ha creato, dà il meglio di sé nel declinarsi socialmente. Perché quello è il suo destino.

Prendiamo il femminismo, non potremmo immaginare il movimento delle donne, che nasce ben prima ma che in quegli anni viene alla luce con un’energia prima impensabile,   senza pensare al ’75, alla rottura separatista  e a quanto questa abbia inciso sul destino dell’intero movimento rivoluzionario. La verità della politica, pur se preparata da lunghe incubazioni, è simultanea alla sua manifestazione. L’arte non obbedisce alle stesse regole, perché la realtà nella quale agisce è un dato esterno, pur se condizionante, ma non è l’oggetto centrale della sua indagine. I movimenti sono solo la modalità sociale con la quale gli artisti possono spiccare i primi passi, ma poi è alle loro individualità che spetta mantenere promesse, la vitalità, la capacità simultanea di verità,  non è del collettivo artistico ma dell’individuo mentre nel campo della politica la vitalità è nel collettivo e l’individuo è un accidente funzionale alla logica collettiva.

       J.Beyus, la rivoluzione siamo noi, 1971
 Da questa premessa scaturisce un atteggiamento meno risentito verso l’ignoranza, l’ottusità “estetica” del movimento rivoluzionario del ’68. In fondo quella grande mostra, quel grande evento dell’arte non era veramente contemporaneo perché emergeva da una storia già costruita in oscurità.

 Quella generazione non vi si può riconoscere anche se spesso i suoi capi hanno condiviso con gli artisti che emergono, lì intorno all’Arte Povera,  le stanze oscure degli studentati all’inizio degli anni sessanta. Dal punto di vista culturale proprio tra le propaggini più radicali e interessanti del movimento, si riscontrano paurose evidenti  voragini. Matrimoni rossi, programmi comunicativi al limite dell’abecedario, avversione e ridicolizzazione di qualsiasi forma di “divagazione” dal linguaggio dottrinale o didascalico.

Così anche se molti artisti si sentivano attratti dai movimenti politici rivoluzionari pochissimi punti di contatto reale si creavano. Solo uno di questi punti di contatto fu organico (Lotta Continua e la galleria Area di Firenze, 1974 – 1976) mentre prevalentemente le organizzazioni politiche cercavano di mettere a profitto la generosità degli artisti impiantando un mercato parallelo di opere d’arte allo scopo di finanziare le loro imprese politico – editoriali.

Mentre in generale per la storia del costume(del modo di essere della persone), dei rapporti interpersonali, delle dinamiche familiari ecc. il ’68 permane uno spartiacque ancora importante (e se lo è in negativo per alcuni esponenti della nuova politica europea la cosa non fa altro che confermarsi), altra cronologia segue l’arte.

La musica, per esempio aveva compiuto le sue rivoluzioni parecchi anni prima e le marcette militaresche dei movimenti non attingevano a quella rivoluzione recente e a portata di mano, semplicemente perché la rivoluzione politica ha bisogno di linguaggi di bassa qualità. Tutto deve essere semplice da capire, da ricordare, da cantare, da riferire. 

               
E. Giliberti - 22 anni, operaio, 25 anni, gallerista

Così, se si fosse fatto un sondaggio tra noi militanti con domande tipo: chi sono i tre artisti contemporanei che ti vengono in mente? Si sarebbe risposto: Guttuso, De Chirico (si ma è “fascio”), Dalì,  tutti oltre i 60 anni.

C’era una indubbia superiorità “mediatica”, dell’iconoclastia più o meno culturalmente  luddista  del movimento negli anni sessantotto.  Superiorità conseguita compiutamente sullo stesso movimento da due sue espressioni secondarie  verso la fine della sua parabola: le formazioni terroriste e il partito radicale. Manifestazioni, scontri di piazza, cortei interni nelle fabbriche, richiedevano riflettori puntati che oscuravano altri angoli meno chiassosi. Così più tardi furono le azioni di avanguardia omicida  dei terroristi e quelle di avanguardia civile, ma altrettanto solitarie, dei radicali ad esaurire  le pile dei megafoni.

 

Una grande sproporzione tra le due anime del tempo è data dalla capacità di produrre eroi. Fosse individuale o collettivo, il sessantotto ha vissuto nel mito dell’eroe come l’arte, ma l’artista è l’eroe impossibile da imitare. La sua individualità è avversaria dell’emulazione e rende problematica l’identificazione che invece l’eroe politico consente. L’emulazione, nella sfera dell’arte, è infatti considerata un disvalore, mentre nel campo dei comportamenti sociali positivi una  virtù.

E’ la capacità quindi  di produrre eroi sociali, eroi massa come Soriano Ceccanti[3] a marcare un confine.

L’arte non è mai democratica, qualsiasi cosa pensi del mondo l’artista che la pratichi. Tutt’al più è sciamanica[4].

La radicalizzazione dell’arte degli anni sessanta[5] prepara insieme a molti altri fenomeni  gli anni sessantotto, ma quegli anni non sembrano produrre da noi  fenomeni nuovi duraturi[6]  fino a che, al crepuscolo, appare la stella della transavanguardia. Anni di transizione artistica con la sospensione, nella generazione protagonista, della questione dell’arte.

Ogni generalizzazione è un’idiozia, ma basta scorrere i nomi di una recente mostra di Luciano Caramel sull’arte degli anni ’70 per notare che  tra i nomi noti quasi tutti sono artisti che hanno cominciato la loro attività già nei primi anni ’60 o ancora prima. Non è un giudizio di valore, ma è un’osservazione. In Italia niente nasce in quegli anni che abbia il peso o almeno la persistenza di  Art & Language, o  Support s/Surfaces, due poetiche opposte ma egualmente radicate negli anni settanta europei. Mancano da noi figure della taglia della francese Gina Pane, degli americani Vito Acconci e Gordon Matta Clark.

Forse da noi il sessantotto è stato troppo lungo e ingombrante, l’impegno politico ha compresso l’energia creativa di un’intera generazione. Negli anni settanta sono presenti sulla scena artistica tutte le figure significative del decennio precedente. Si sviluppano e radicalizzano linguaggi. Ma si creano poche cose ex novo[7] e la generazione protagonista non si accorge di niente, non è coinvolta.

Beuys nel  ‘75 confeziona per Lotta Continua le bottiglie per il the di Bruno Corà: curioso, ma il suo manifesto “la rivoluzione siamo noi” può essere tutt’ al più equivocato se non rifiutato.

L’unica forma ammessa è l’immagine utile. Nel suo piccolo il movimento del sessantotto riproduce l’autodafé che i regimi totalitari allestiscono per l’avanguardia o l’arte degenerata. [8]

Quello che dal ’76 in avanti accadrà con l’ascesa della transavanguardia potrebbe essere letta a questo punto come l’unica risposta possibile all’oppressione politica. Insomma l’unica espressione persistente dell’arte italiana  che ha le sue radici negli anni del sessantotto. D’altronde la grande installazione di Enrico Baj dedicata alla morte dell’anarchico Pinelli. Una delle maggiori opere che si confronta con la realtà del tempo è di un artista nato negli anni ’20.  

L’anno più lungo del secolo scorso termina per me il 23 novembre del 1980. Si sentivano gli echi degli ultimi spari politici in strada.  Insieme al nostro territorio il terremoto devastava i tavoli dove ingiallivano (senza che noi ce ne accorgessimo) progetti di cambiamento.

 

E nel 1981 siamo anni luce più tardi, una vecchia linotype di Lotta Continua viene trasformata in opera d’arte dallo stesso Beuys in una performance in palazzo Braschi a Roma. Sembra un’allegoria della trasformazione che la fine delle speranze sta producendo nelle menti dei protagonisti del lungo anno del sessantotto (ormai quasi due intere generazioni). I volti che si riconoscono nelle memorabili fotografie di Tano D’Amico fanno un ritratto di un momento fuggevole in cui le due parti in movimento si incrociano, grazie a Joseph Beuys e a Checco Zotti, alla persistenza dell’arte e al ritiro della rivoluzione.

 

Ora siamo tutti a caccia di noi stessi, ricacciati indietro da un mondo che non ne vuol sapere di essere salvato.

 Sono gli anni ottanta ragazzi.

 

 

la rivoluzione siamo noi, Joseph Beuys, 1972

 

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E gli anni ottanta sono una ventata di aria nuova nelle nostre cantine piene di fumo (di Marlboro a tre pacchetti mille lire). A dispetto del preteso “impoverimento” della cultura artistica piegata dal mercato, mi ricordo di una spinta fenomenale ad appropriarsi di tutto quanto assimilabile all’idea di cultura, tutto quanto era liquidato come ”sovrastrutturale” fino a un momento prima. Così teatri d’avanguardia, gallerie, musei, conobbero sale piane e file agli ingressi. Si apriva la strada a un consumo di massa della cultura di dimensioni che credo non si erano mai viste prima. Non vorrei fare analisi grossolane, ma ricordo le facce. Eravamo noi, che siamo anche la generazione del baby boom e della scuola di massa. Dal chiasso al silenzio. Dalla piazza al museo, ancora con la voce rauca dagli slogan esagerati che qualcuno aveva preso sul serio.

Mi è capitato già una volta di dire e di litigare a proposito della valutazione del dopo.

Atterriti dalla potenza con cui l’arte della transavanguardia sembrò far piazza pulita di ideologismi e concettualismi che apparivano d’improvviso  sterili, molti rimasero appiattiti in attesa che la bufera passasse, che il dibattito sull’arte riprendesse forme domestiche praticabili al riparo dai turbamenti .

Era del tutto nuovo (lo ricorderà Lucianio Fabro nel convegno “rendez-vous des amis”, al museo Pecci nel 1998) che genitori accompagnassero l’iscrizione dei propri figli all’accademia di Brera con la speranza di una luminosa e lucrosa carriera. Una volta l’iscrizione testarda di un giovane borghese all’accademia era guardata dalla famiglia con notevole apprensione come una rinuncia al mondo, quasi come l’avviamento al noviziato.

 

Non avevo ancora mai esposto, nel 1983, mi guardavo intorno mentre dipingevo i miei primi quadri (avevo deciso che 200 fosse la soglia minima per considerarmi di nuovo “pittore”). Fui colpito dalla frase buttata lì da Michele Bonuomo [9]a proposito del problema di vendere opere: –il problema non è vendere, tutto si vende…., il problema è cosa vendere-. A parte l’angoscia nella quale mi immergeva il pensiero di dovere ancora superare l’arcigno esame sul cosa, mi si aprì una visione “bulimica” del mercato dell’arte dove qualsiasi cosa sarebbe stata venduta se offerta. Se era così, allora, bisognava entrare nel campionario di chi aveva potere di offrire.

Insieme a pochi coetanei e molti “barbari”, ragazzi freschi di accademia cui pochi anni di differenza conferivano ai miei occhi quella condizione intellettuale di tabula rasa che in fondo invidiavo,  cercai di intraprendere la dura strada che portava al nostro nuovo avvenire. 

Formammo un gruppo senza troppi contenuti teorici, preferivamo fingere di fare il fenomeno improvviso e inesplicabile, tramite amici contattammo Achille Bonito Oliva.

 

Cogliemmo la reazione infastidita e invidiosa dell’ambiente artistico che coltivava un’avversione violenta e biliosa nei confronti del successo, vero, della transavanguardia e in quello esorcizzato di ogni nuovo artista che si presentava su una scena che è sembrata sempre troppo affollata, il nostro, per esempio.

 

Forse per la prima volta gruppi di artisti si formavano esclusivamente nel miraggio della costruzione di una strategia di “successo”. Le nostre orecchie sono ridiventate caste, ma hanno sentito espressioni che oggi si immaginerebbe più facilmente ascoltare in una sala scommesse o in una conventicola di furbi affaristi.

Si criticavano come espressioni anacronistiche e prive di ogni valore tutte le forme di creazione artistica inutilizzabili dal sistema che venivano schernite col termine “concettuale”, per qualche anno sinonimo di “ritardatario”. Il valore dell’opera si spogliava di ogni trucco o raggiro intellettuale coincidendo pienamente con la sua capacità immediata di suscitare un prezzo di mercato.

 

Era una maniera di esorcizzare la paura di non essere all’altezza, di non farcela in un mondo che ti sbatteva in faccia spietatamente la sua ricchezza e i suoi arbitri, ormai nuovi modelli universali.

 

Cercavamo di specchiarci negli altri e di riconoscere ancora una comunità dove invece eravamo soli, indeboliti dalla mancanza di un campo intellettuale originale e subalterni agli altri soggetti del sistema dell’arte. L’artista era nudo. E povero.

L’arte nasce dove può e dove deve, in qualsiasi condizione. Si adatta ai contesti. E mentre scampoli di nuova scuola romana esaurivano ogni spazio possibile per la poetica della transavanguardia qua e là nascevano ricerche che richiamandosi ad altre paternità costruivano scenari futuri.

Il  1989 intanto stroncava l’illusione di immortalità del post-modernismo criticandone la stessa nominazione e restituendo il significato temporale agli aggettivi “moderno” e “contemporaneo”. 

Nello scompiglio seguito alla grande crisi, che sembrò letteralmente ingoiare interi pezzi del sistema dell’arte così come si era disegnato negli anni ottanta,  si è aperto per un certo tempo uno spazio nuovo, di azione autonoma e alternativa degli artisti. Pratiche non commerciali, come la performance  furono adottate dai più giovani senza soggezione, alcune volte grazie a una disinibente dose di ignoranza, gli artisti cominciarono a vedersi tra loro, nacquero diverse esperienze interessanti, come la breve avventura napoletana di  Pompeiorama (primo progetto espositivo pubblico affidato ad artisti in Italia), la rivista romana Opening, la galleria di Via Farini (Milano)e, soprattutto, “Progetto Oreste” tentativo di ricostruire un tessuto pensante tra gli artisti europei attraverso una serie di iniziative comunitarie, vere e proprie incubatrici per una nuova generazione.

Progetto Oreste finì alla Biennale di Venezia del 1999.

Finì.

La riorganizzazione del mercato, su una base internazionale molto più ampia (pensiamo all’ingresso in scena  prima degli artisti dell’est europeo, poi ai cinesi - sempre la biennale del 1999 - ) richiama all’ordine il sistema e riporta gli artisti alla loro solitudine (anche se quasi per compensazione in quegli anni si formeranno molti “duo” artistici di discreto successo: Bianco Valente, Botto e Bruno, Cuoghi e Corsello, Perino e Vele ecc.).  E’ storia dei nostri giorni e fa parte della riorganizzazione generale dei sistema dell’arte internazionale, la fioritura di nuove strutture museali dedicate all’arte contemporanea. Finalmente anche molte città italiane se ne sono dotate. Curiosamente sembra essere l’unico campo nel quale Napoli dà punti a Milano: Madre, Pan, l’attività espositiva del polo museale a Capodimonte e Sant’Elmo,  troppa grazia… Chi l’avrebbe immaginato qualche anno fa? La base di massa dell’arte cresce. E anche se in generale si disegna come una base consumatrice più che partecipe, esprime  diverse nuove figure di galleristi e collezionisti molto informati e molto ambiziosi. Sono passati veramente molti anni, anni luce, dagli anni sessantotto, e un giovane artista che oggi cerca la propria strada (perché al di là di ogni filosofia, alla base di tutto c’è sempre un talento individuale che cerca di affermare la sua presenza) sembra avere maggiori possibilità. Il sistema è apparentemente più aperto. Tutti alla ricerca del nuovo Van Gogh da sottrarre al suo destino di disperazione e follia[10] ma anche tutti alla ricerca di nuovi prodotti con cui nutrire un mercato insaziabile di novità/curiosità, certe volte effimere. Il mercato dona “certezze”solo nei piani alti (dove la scrematura del primo mercato crea il “brand” artistico che poi filtra nell’informazione popolare con i suoi contenuti  “scandalosi” e prezzi esorbitanti) ma tendenzialmente moltiplica le strutture intermedie di promozione[11]..

Conseguenza o condizione compresente all’assetto descritto del sistema  è  il fenomeno dell’atomizzazione, la dispersione dell’artista nel tessuto sociale che oggi appare capace di riconoscere e ”metabolizzare” i suoi segni, di renderli “normali”, funzionali alla società che comincia ad avere un atteggiamento “accogliente”.

Ho assistito recentemente, davanti a una vetrina romana dove artisti sono chiamati a turno a mostrare opere da offrire alla visione rapida dei passanti, alla dichiarazione del proposito di avviare rapporti con l’amministrazione pubblica per favorire la realizzazione di opere che riqualifichino pezzi di architettura urbana non risolti. Il “lavoro sporco” cui ci ha abituato la nostra metropolitana dell’arte con alterni risultati.

 Al di là di snobismi facili che possono suscitare, per esempio,  le povere opere abbandonate nella stazione squallida del centro direzionale di Napoli, abbiamo sperato intensamente che un fenomeno del genere si verificasse. Che la società desse finalmente prova di considerazione sociale all’arte e non sappiamo quanto questa nuova normalità sia messa in pericolo dai rivolgimenti politici in atto (e della svolta culturale sanfedista che potrebbe conseguirne).

Critichiamo il senso di vuoto che in fondo lascia ogni fenomeno di normalizzazione e contemporaneamente  ci appare inaccettabile che esso si interrompa. Perché l’arte e i ragazzi non dispongono oggi della speranza di cambiare il mondo.

 



[1] Rubo questa immagine a Tano D’Amico che così racconta come sia diventato il fotografo di Lotta Continua – Tano è lento, lui farà le fotografie….

[2] De Dominicis mostra alla biennale di Venezia una persona affetta da sindrome di Down come opera d’arte

[3] A pochi giorni di distanza dalla contestazione alla prima de La Scala è la volta di Viareggio. A “La Bussola” di Viareggio per il veglione di capodanno 1968 è previsto un concerto con Fred Bongusto e Shirley Bassey. Ci sono scontri con la polizia che spara. Soriano Ceccanti ne verrà colpito e resterà paralizzato, uno dei primi eroi del movimento del ’68.

[4] Tutto quel noi, quel sacrificio della propria individualità a vantaggio della collettività, quello spirito di corpo, incanala per scopi diversi e più lontani dall’interesse e dalle pulsioni assolute dell’individuo sue energie. Ma è una necessità di sopravvivenza degli individui e diventa un abito culturale, una modalità di comportamento che non cancella il fondo del proprio egocentrismo.  Così il sessantotto collettivo e generoso si nutre alla stessa fonte di interessi primari e pulsioni della società selettiva e ingiusta che combatte riproducendo nei suoi piccoli sistemi di potere le stesse dinamiche del Potere. 

[5] Tornando al mondo mi vengono in mente tre presenze certamente radicate in quegli anni: Gina Pane, Vito Acconci, Gordon Matta Clark. Li abbiamo visti, allora. Amati, dopo.

[6] Soprattutto nella seconda metà degli anni settanta si manifestano diverse esperienze di “arte sociale” che restano, almeno in Italia, fenomeni circoscritti al tempo che li ha imprigionati rifiutandosi spesso di trasmetterne anche le informazioni. Trovandomi a palarne varie volte in questo periodo mi accorgo di quanti in quegli anni siano stati coinvolti in misconosciuti progetti. Mi dispiace non poter condividere la vividezza di quei ricordi, ma lì è il punto. Se il movimento è il fatto che domina  il tempo, è alla luce di esso che guardo. Ed è quel fatto che non è risuscito o non ha voluto e potuto dare slancio alle esperienze che esso indubbiamente suscitava.

[7] Discorso a parte riguarda la video arte, Bill Viola, per esempio, nei primi ’70 è in Italia, collabora con Maria Gloria Bicocchi alla creazione del primo centro di diffusione della nuova arte  del “video tape”. Sta maturando una sua poetica che esploderà nel 1980 con una grande retrospettiva al MOMA. Così Fabrizio Plessi, pioniere in Italia della nuova arte, resterà personaggio isolato nella sua dedizione al nuovo mezzo fino alle generazioni  più recenti

[8] Ripeto che la mia età e il mio ingresso ritardato nel mondo dell’arte mi obbligano a non andare per il sottile. E nessuno se la prenda con la mia ignoranza, essendo essa dichiarata. Mi limito ad osservare l’osservabile da questo dichiarato punto di osservazione dove presenze universalmente considerate rilevanti come quella di Peppe Desiato, non ribaltano una sensazione generale di debolezza della creazione artistica degli anni sessantotto.

[9] Corteggiatissimo critico d’Arte e giornalista de “Il Mattino” negli anni ’80, molto vicino al gallerista Lucio Amelio.

[10] Prendo questa affermazione dal colloquio tra Warhol e Schnabel nel film Basquiat, di Julian Schnabel.

[11] Ognuno poi vede le cose alla luce della propria esperienza e sensibilità, non c’è mai abbastanza spazio per le ambizioni di tutti e quegli artisti giovani che oggi trovano uno spazio di lavoro e visibilità molto maggiori di un tempo sono sempre un piccolo numero rispetto alla folla degli aspiranti. Non sono finite le pene