Eugenio Giliberti - mostre personali / 2003 Curriculum vitae / Castel Sant'Elmo / Napoli / a cura di Angela Tecce


<<<   L’esordio artistico alla metà degli anni ’80 era infatti coinciso, per Giliberti, con quella fase di recupero della qualità materica e narrativa del colore, propria degli artisti appartenenti alla Transavanguardia, che a Napoli  aveva avuto un suo centro nodale. E’ del 1985 la sua partecipazione a Evacuare Napoli, mostra curata da Achille Bonito Oliva, ma già da quel momento la pittura dell’artista si distacca da un comune andamento figurale per orientarsi verso una dimensione più aniconica. Dalle estroflessioni o introflessioni della tela e dalla calibratura dello spessore del colore – e quindi della loro messa ‘in tensione’ - di quelle primissime opere nasce l’esigenza di ‘fuoriuscire’ dal quadro-superficie come spazio limitato di scelte possibili, di qui la scelta dei pannelli di legno estroflessi, dipinti ad encausto.

Il lavoro su questi moduli monocromatici quadrati  è il risultato di indagini diverse sondate con inesausto rigore: da un lato la scelta del supporto e della sua forma, il quadrato per i pannelli e il cerchio per le lenti, ritenute dall’artista forme semplici e meno soggette delle altre a possibilità diverse di lettura; dall’altra l’uso dell’encausto, ottenuto a partire dalla cera pura sciolta con solventi e con  pigmenti industriali cui si aggiunge, nel caso dei pannelli quadrati, la vernice ‘flatting’ per accentuare l’idea di una struttura che sorreggesse la cera pigmentata. La stesura del colore, dato a caldo e a mani successive sul supporto ligneo, contribuiva a rendere specchiante la superficie dei pannelli, eludendo, attraverso la percezione della densità e matericità cromatica, il rischio di una lettura di matrice ‘minimal’. Le stesse dimensioni delle opere diventavano moduli di riferimento: la misura del quadrato era di 44 centimetri perché il compensato disponibile in commercio, da cui si potevano ottenere due moduli, era di 90 cm; mentre il diametro della ‘lente’ era di 184 cm e l’altezza prescelta per la sua convessità era individuata in 18,4 cm, cioè un decimo del suo diametro. Inoltre, la dimensione di 44 cm dei pannelli quadrato era tale che, sistemandone circolarmente dodici pannelli, ne derivava un cerchio di 168 cm di diametro; 168 cm è anche l’altezza di Giliberti, che così chiude ancora una volta un cerchio logico di significato che rimanda alla idea primaria del quadro, specchio riflesso dell’artista e suo autoritratto.

Giliberti descrive in una intervista (Silvie Parent, Enterevue,Quebec 1998) il tipo di metodo attraverso il quale ha preso l’avvio il lavoro dei “seicentottantamila e quattrocento quadratini colorati”: “Lavoravo su moduli monocromatici estroflessi e preparavo una mostra di trittici. La mia strumentazione mi consentiva di fabbricare 10 colori alla volta. Da questi quindi formavo tre trittici. Eseguivo un certo numero di composizioni  su carta, prima di procedere al lavoro su moduli, molto sinteticamente, com’è normale, ma mi domandavo come sarebbe stato se avessi provato tutte le combinazioni possibili. Partendo da questi dati feci dei calcoli: le combinazioni possibili erano 75.400 per un totale di  680.400 superfici colorate.

La dimensione di un tale progetto era tale da uscire dal problema abituale della selezione dei colori nel disegno preparatorio .

Un lavoro simile si affranca dall’asservimento e acquista la sua personalità di opera.”

Quello che appare essenziale alla comprensione di quest’opera è l’intima connessione tra gli assunti teoretici e la loro trasformazione in una prassi che assume in modo aperto e ricettivo tutta l’alea derivante dal suo svolgersi.

Nel 1996 Giliberti presenta i “680.400 quadratini” in una redazione compiuta - realizzata con il colore ad encausto su carta quadrettata -  nella personale alla galleria napoletana Theorethical  Events, di Massimo Lauro e Guido Cabib, e si tratta del risultato di una sperimentazione durata qualche anno, nella quale indubbiamente anche il fattore temporale dell’esecuzione non è estraneo al significato stesso dell’opera e del suo statuto formale. Prova tangibile di questo sdoganamento del senso del lavoro dalle sue mere componenti materiali ne è anche un’altra formulazione “ridotta”, sempre del 1996, presentata a Gubbio alla mostra Forma Urbis, curata da Bruno Corà, nella quale 25.000 quadratini colorati e 43.749 bianchi, realizzati in ceramica, formavano un pavimento intorno al quale lo spettatore poteva circolare e cogliere dell’opera il sistema ideativo ad essa sotteso e percepirne una fisicità carica di un suo autonomo potenziale semantico. “L’iperminimalismo dell’azione plastica - scriveva Corà – basata su dieci valenze cromatiche delle tessere ceramiche giustapposte a gruppi ternari, secondo tutte le combinazioni possibili, ha dato vita a un’opera di felice decorazione , in cui la teoria cromatica è la chiave nemmeno tanto segreta di questo esercizio filosofico su una materia brillante.”

Se i “680.400 quadratini” nascono da una riflessione sulle possibili combinazioni matematiche dei colori che Giliberti utilizzava, è invece dallo scandagliare la consistenza, lo spessore e la lucentezza del colore ad encausto usato per i ‘moduli’ e per le ‘lenti’, che nasce ad un certo punto della sua ricerca la volontà di sperimentarne la possibilità di esistenza in quanto forma plastica, volume nello spazio.

Da qui la creazione delle pitture in forma di oggetti, dapprima trovate casualmente nel corso stesso del lavoro sul colore ad encausto con la cera, riscaldato e steso fino ad ottenerne un ‘tappetino arrotolato’ e poi volutamente plasmati nelle forme di oggetti che esperiamo quotidianamente come vasi, sedie, tavoli.

Sono opere cui l’artista si dedica per alcuni anni, dedicandosi alla loro esecuzione a partire dall’esigenza di ‘liberare’ i colori di volta in volta usati in una dimensione oggettuale, che egli stesso definisce ‘platonica’, dal momento che i tappeti, i vasi le sedie,  i tavoli , rossi, azzurri, gialli non sono ‘reali’, ma rappresentano  l’idea più comune e più banale della loro esistenza. Il colore stesso, con un procedimento di sovrapposizione di strati, si struttura stereometricamente intorno ad un’anima di fil di ferro, talvolta lasciata in evidenza, come a renderne visibile l’artificiosità. Il senso di queste opere si muove in una direzione contraria a quella che indicava la definizione del critico americano Clement Greemberg  a proposito dell’arte del reale. In quel caso infatti si individuava la realtà dell’opera in quanto forma nello spazio, colore, materia e, a partire dall’espressionismo astratto americano, si delinava un’autonomia dell’arte che avrebbe portato a esiti differenti, dalla minimal art a certa parte dell’arte concettuale.  Nel caso di Giliberti all’inverso si va dal caldo al freddo,  da una sensazione visiva e tattile del colore ad una sua espressione per così dire formalizzata, emblema di un’urgenza di comunicare a chi guarda, in modo sinteticamente significante, le pulsioni, le percezioni che la pittura, materia canonica dell’arte, ha generato.

 Non sarà inutile, a proposito di questo passaggio ‘entropico’ tra i due stati di caldo e freddo, citare un lavoro completamente diverso che Eugenio Giliberti pose all’ingesso della mostra da Theoretical  Events: una stufa,  fatta con delle tavolette di mica e delle resistenze elettriche – usate normalmente dall’artista per riscaldare la cera per l’encausto –  accoglieva il visitatore come a ‘riscaldarlo’ e lo accompagnava nelle altre stanze, dove dapprima una parete completamente dipinta di giallo fungeva da stacco, da elemento di riflessione sulla pittura, fino ad arrivare alla stanza del 680.400 quadratini. Un percorso dove si otteneva un continuo ribaltamento dei termini della questione: se la stufa realizzata con i materiali ‘poveri’ trovati nello studio può sembrare un lavoro generato degli aspetti emotivi del processo creativo perseguito dall’artista, ne rappresenta anche l’aspetto più concettualmente meditato, dall’altra i quadratini, frutto di un’operazione combinatoria astrattamente mentale acquistano il loro significato nella azione stessa del fare, nel tempo lunghissimo necessario per l’esecuzione, nella concretezza del colore, nei possibili errori e pentimenti, ma soprattutto nel loro monito ad una lettura dell’arte in termini di impegno e di lavoro dell’artista sui suoi stessi mezzi espressivi.

Dai tavoli, dalle sedie, dai vasi platonici, in una sequenza logica che di volta in volta sembra aggregare altri tasselli, nasce un’altra serie di lavori che si intitola L. P. Zanzare, che sta per ‘Lavoro Politico Zanzare’. 

Le Zanzare, presentate al pubblico da Giliberti per la prima volta a Castel Sant’Elmo nella mostra Castelli in aria, del 2000, sono pittura in forma di oggetto, colore che acquista una sua presenza nello spazio, divenendo scultura e recuperando un significato al contenuto rappresentato. Ecco di nuovo l’oggetto platonico, che assume un’ulteriore valenza simbolica, allusiva alle implicazioni di fastidiosità e di punture tipiche di questo insetto; il sottotitolo lavoro politico inscrive l’impegno dell’artista - dalle lotte politiche degli anni ’70, fino al suo coinvolgimento nella formazione di artisti italiani Oreste o nell’organizzazione di Pompeiorama, attività di mostre ed eventi nella Casina Pompeiana nella Villa Comunale di Napoli – in una più generale vocazione rivolta alla creazione di strutture e modelli, astratti e concreti, diretti a soddisfare le istanze etiche ed estetiche dell’uomo.

E’ nella relazione che intercorre tra lo spettatore e l’opera che viene perseguita l’idea di bellezza di queste zanzare, così come in quei lavori che nel corso di questi anni da esse sono nate. E così la zanzara può trasformarsi in un grande ragno di pittura gialla che con la zanzara condivide l’istanza etica, in questo caso non più il pungolo, ma il riferimento alla ragnatela, alla rete di comunicazione entro la quale ci muoviamo;  può diventare una zanzara … come quella presentata a Prato o un raffinato pattern disposto secondo un piano prestabilito, come quello pensato per  questa mostra di Sant’Elmo, in cui i disegni acquerellati delle zanzarine saranno disposte a quinconce, a formare un partito decorativo che accoglierà lo spettatore immergendolo in uno spazio segnato insieme dalla gradevolezza che attiene al concetto di decorazione, derivante dalla ripetizione e dalla concatenazione dei suoi elementi e dal fastidio suscitato dal soggetto, caratterizzato dalla molestia e dalla imprevedibilità del suo comportamento.

In questa voluta discrasia, in questa studiata frattura tra percezione e contenuti si situa il lavoro di Giliberti, sia in senso metaforico che nella impalcatura mentale delle opere: proprio l’occasione di dialogare con un luogo denso di segni architettonici, storici, paesaggistici come Sant’Elmo ha suscitato nell’artista l’urgenza di mostrare, ‘esporsi’ in maniera da coinvolgere tutte le componenti della sua complessa strategia poetica e visuale. Ciò gli consente, o, se vogliamo, lo ‘obbliga’ a presentare per la prima volta  una figura umana, modellata nella cera bruna, che apparentemente, nelle fattezze e nelle dimensioni, è un autoritratto: autoritratto privo di connotati reali, autoritatto di artista, idea platonica dell’istanza primaria dell’arte di rappresentare se stessi e la realtà. Allo stesso modo della figura bruna, rimasta per anni nello studio, la superficie lucente dei suoi lavori ad encausto potrà dispiegarsi –  come un mosaico bizantino, che con la sua ‘astrattezza’ dissolve la sostanza del supporto murario cui si aggrappa - su pareti e volumi preesistenti portando a compimento la fuoriuscita dal quadro all’origine dei suoi pannelli e delle sue lenti e trasformandosi in cromia spaziale e ambientale, senza per questo perdere la sua autonoma qualità visuale. Nello stesso tempo il colore sarà anche volume  in una piccola e lucidissima forma di cera pigmentata che sarà posta di fronte alla figura bruna, così come una zanzarina di cera tridimensionale sarà animata meccanicamente e con una particolare illuminazione si potrà ricreare l’effetto del suo movimento.

Il progetto di Giliberti per Castel Sant’Elmo dispiega nello spazio in modo sincronico gli elementi della struttura ideologica e concettuale della sua ricerca. Da qui il titolo della mostra – mutuato dall’artista da quello dell’autobiografia di Muriel  Spark – non tanto allusivo all’idea di compendio di una biografia artistica, quanto “sineddoche” che racchiude in un senso unitario l’attitudine metodologica dell’artista. 

 

 

 

La costante che appare aver scandito con una intensità particolare i momenti del discorso creativo di Eugenio Giliberti è stata la sperimentazione e riconoscerne nel suo lavoro l’importanza significa sgomberare il campo da ogni possibile equivoco ed attribuire alle sue opere  il loro intrinseco valore. Proprio a sottolineare tale valore, costruito su una attenta verifica delle diverse componenti di ogni singola opera, verifica che acquista ogni volta connotazione e significato autonomi anche rispetto ai presupposti di partenza, abbiamo voluto affrontare con lui molti dei temi relativi al suo lavoro in generale ed al progetto per Castel Sant’Elmo in questa conversazione.

 

A: Cerchiamo di descrivere negli spazi della Piazza d’Armi e degli spalti del Castello un percorso con le opere che hai pensato di esporre . 

E: Inizialmente ti avevo parlato di uno di quegli ambienti che si affacciano sugli spalti, immaginandolo affrescato con una decorazione a quinconce. Immaginavo un pavimento di resina bianca e lucida, perché il visitatore dovesse risultarne come sospeso. Dissi che in una installazione più grande avrei mostrato l’uomo di cera bruna. Visto che ora è disponibile anche la grande sala...io potrei fare l’affresco per tutta la superficie delle pareti e del soffitto, lavoro enorme ma molto forte…  e metterò due elementi all’interno della sala: uno è proprio la figura, ed un altro è un piccolo elemento monocromo, un lavoro nuovo.

A: Un elemento tridimensionale quindi…

E: Un corpo monocromo dove poter giocare anche un altro elemento al quale ho lavorato tempo fa. Si tratta dell’idea di un sistema di corrispondenza tra le frequenze del fenomeno visivo e del fenomeno sonoro. Vorrei fare in questa mostra ciò che sento necessario da tempo, cioè guardare tutto come dal di fuori, eliminando gerarchie che sono dettate solo dal tempo che viviamo, ma non sono reali. Concentrare quello che potrebbe apparire disunito, ma senza appesantire il lavoro con artifici che possono apparire cervellotici.

A: Gerarchie tra gli aspetti diversi del lavoro?

E: Sì, mettere insieme queste cose che tra loro sono già concatenate in maniera indissolubile, non solo da un filo mio logico interno che non può essere comunicato.

Il volume è monocromo come la figura umana, l’animale che sta lì sul muro discende dall’evoluzione dei miei primi oggetti platonici inanimati: sedia, vaso, tavolo fino all’uomo, che riproduce le mie misure in quanto io sono l’unico possibile riferimento all’idea di uomo, idea dell’oggetto. Dal volume monocromo all’oggetto platonico, all’uomo ed infine  alla zanzara, ci sono tre salti della stessa misura.

A: Perché l’oggetto è “platonico”?

E: La lingua italiana – ma anche l’inglese - mi fa grazia della sottigliezza alla quale mi obbliga il francese con la distinzione tra “platonique” e “platoniste”. Mi trovai alle strette in una lezione all’Università di Québec. Una studentessa mi chiarì che per la lingua francese avrei dovuto scegliere tra le due opzioni: platonique è platonico nel senso comune; platoniste nel senso filosofico. Voglio restare nell’ambiguità. Dopo aver scelto questa definizione, mi sono dato diverse ragioni: gli oggetti sono certamente platonici nel senso del linguaggio comune, come in generale l’arte è platonica; lo è certamente la scultura quando riproduce in scala 1:1 il mondo reale privato di ogni funzione d’uso (a meno che non sia concepita come funzionale alla poetica dell’artista).

Per quel che riguarda gli oggetti di cera: non puoi sederti sulle sedie “platoniche” (che  comunque corrono sempre questo rischio, tanto che al Museo Pecci cono state sgangherate ripetutamente da visitatori stanchi.) La sensazione che hai dell’oggetto non deve essere quella di un oggetto specifico, come un oggetto di design.Ti deve restare l’informazione del colore, ed astrattamente della categoria di oggetti alla quale appartiene: sedia, vaso, sgabello.

Parlo di oggetto platonico nei due sensi, quindi, ma tengo di più a che la pittura esprima l’idea generale di un oggetto. Quando l’oggetto platonico è un uomo, ha le mie dimensioni perché è il mio corpo il primo oggetto di conoscenza di un me autonomo.

A: Anche i tuoi oggetti convessi richiamano lo specchio.

E: Se devo far risalire la scelta della forma lenticolare o estroflessa ad un’esperienza primordiale mi viene piuttosto da pensare ad un’altra forma di riflessione, non quella dello specchio piano, ma quella del piccolo specchio convesso o concavo rappresentato da un cucchiaio molto lucido nel quale potevo perdermi nella tavola dei grandi, quando vi fui ammesso le prime volte nei giorni di festa.

La sala decorata si situerà dunque tra questi due fuochi: la forma monocroma e l’uomo. Naturalmente dare un tal peso a questo insieme obbliga a dimensionare in altro modo l’intervento sul circuito delle piccole strutture edilizie costruite sugli spalti del castello. Ma se conserviamo l’idea di realizzare un’opera permanente in situ potremmo comunque realizzare la piccola sala “affrescata” con il pavimento di resina.

A: Con la stessa decorazione della sala grande?

E: Certo, credo che la cosa funzioni. D’altra parte, sto andando avanti su progetto di animazione della zanzarina. Ho necessità di approfondire il problema dei materiali: ho bisogno di un materiale che risponda bene alla torsione per poter far assumere alle zanzarine le diverse posizioni, l’impalcatura di questi piccoli oggetti deve essere di acciaio, ma di una qualità particolare che si presti alla modellazione.

Importanti saranno lo spessore, malleabilità e resistenza perché bisogna poter cambiare liberamente il movimento da animare. Un oggetto così deve essere illuminato da un apparato molto semplice. La luce sarà stroboscopica se necessario, per  favorire l’inganno percettivo, ma deve comunque essere minima, un dispositivo discreto.

 Penso  che  questo carosello della zanzarine dovrebbe essere sistemato anche in un altro luogo, ma non è detto che debba essere una sala ‘espositiva’, un luogo protetto dall’aura museale. Penso ad un ambiente facilmente raggiungibile dove però l’opera sia chiaramente ‘fuori posto’, ospite di una situazione in cui chiaramente si fanno altre cose. E’ anche un modo per liberarsi dal possibile fraintendimento di una mostra che si strutturi per stazioni  secondo un itinerario da via crucis.  Potrebbe essere un ufficio, anche se si deve immaginare che sia un luogo aperto al pubblico. Un  artificio per svelare il lavoro che c’è intorno alla mostra, ad una mostra in generale, che non è possibile solo grazie all’incontro felice tra un l’artista ed il suo curatore. L’incontro deve esserci ovviamente, ma non è sufficiente a se stesso, deve accendere e catalizzare altre forze ed altri soggetti perché possa arrivare al compimento dell’operazione artistica.

A: Quello che mi sembra arduo, finora, è quello di spiegare la consequenzialità logica e poetica tra quelle che tu chiami le “fondamenta del lavoro” ed il resto della tua opera. Ivi comprese le opere dell’istallazione alla quale tu pensi. Ad esempio stavi parlando dello spazio occupato dal modulo dipinto e che questo era funzionale all’entrare.

E. Sì, parlavo della questione della decorazione dell’ala sulla Piazza d’Armi. Questa sala affascina per la sua contraddittoria natura di architettura leggiadra (per le sue volte a vela) ma inquietante (per quelle finestre che guardano verso qualcosa di oscuro, come verso un’antica ed abbandonata segreta) .

Perché dentro questo spazio inserire gli altri elementi? Ho bisogno ancora di qualche riflessione, da parte mia, ed anche di un aiuto da parte tua, perché forse, mai come altre volte, questa mostra è una costruzione a due. Finora, il  rapporto con chi ha presentato il mio lavoro è stato così: io faccio il lavoro e c’è qualcuno che lo legge, ma, naturalmente, dal punto di vista della concezione di ogni singolo lavoro, l’ideazione avviene in un certo tempo e con un certo background; però mai come questa volta la sento come un’operazione condivisa.

 Qui  ciò che vedo di delicato ed interessante è che, come mi accade sempre quando entro in uno spazio, vivo una nuova avventura. Succede anche perché finora non ho mai fatto una mostra due volte nello stesso spazio, non ho mai avuto possibilità di prendere abitudini.

A: Anche per me questa è un’assoluta novità, nel senso che io ho sempre saputo che un luogo come questo, così carico di una sua potenzialità intrinseca, andasse sondato da operazioni esplicitamente e dichiaratamente pensate per esso. Anche quando facemmo il convegno di “Castelli in aria” (2000), molti sottolinearono questo aspetto. In particolare mi ricordo l’affermazione di Massimo De Carlo, “uno spazio molto affascinante, però uno spazio dove tutto andrebbe fatto appositamente in sua funzione. Come fai ad utilizzarlo?”. La sua opinione mi sembrò giusta ma anche violenta e in questo senso la mostra di  Bruna Esposito (2002), pur essendo stata il risultato di un percorso emotivo e creativo autonomo dell’artista, è stata utile ed importante, perché aver visto, seguito e condiviso come Bruna avesse lavorato dentro il suo lavoro, ma anche dentro quegli spazi, mi ha dato fatto desiderare di sperimentare la cosa con altri artisti. Mi rendo conto che è uno spazio difficile, a me sembra carico di potenzialità, ma nello stesso tempo ha qualcosa di oscuro e anche di autonomo, quasi funziona da solo, per cui è chiaro che attraverso questo tuo lavoro dentro lo spazio io vedo anche una mia possibilità di lavoro critico e questo  per me è  molto importante. In questo caso posso lavorare con un artista che mi ha sempre interessato ed è sempre stato congeniale al mio modo di intendere l’arte, quindi un’occasione di verifica. C’ è una frase di Foucault incisa da Carlo Alfano nella sua Stanza delle nominazioni: "Il problema non è più quello della tradizione e della traccia, ma quello della frattura e del limite. Il problema non è più quello del fondamento che si perpetua, ma quello delle trasformazioni che valgono come fondazione rinnovamento delle fondazioni”(?) Quando ho letto questa frase nel capitolo dedicato ad Alfano nel libro di Angelo Trimarco (…), ho molto pensato al tuo lavoro. Mi pare che tu lo dicessi prima, quando parlavi della ‘decorazione’, in qualche modo sottolineavi il discorso che il senso, il contenuto del tuo lavoro si sposta dalla decorazione dell’artista allo spettatore che c’entrerà dentro.

E. Questo mi fa tornare alla mente la proiezione sensitiva e sensuale che io faccio nell’immaginare l’ingresso in una delle piccole sale sugli spalti. Quando uno è giovane e fa un certo lavoro artistico, l’offesa più grande che possa essergli arrecata è quello di definire il suo lavoro decorativo. Credo che questo termine sia stato per la prima volta scagliato contro un’opera in Francia, dove décoration indica arredamento,  quindi il decorativo è inteso nel senso di una cosa fatta per star bene in un certo posto, mentre il senso italiano è un altro, perché la decorazione è una cosa non che sta bene ma che fa star bene. C’è una bella differenza, ma tutte e due le accezioni del termine concorrono a creare questo senso negativo.

A: In entrambe le accezioni, si tratta di indicare qualcosa di più, di inessenziale, qualcosa che è al disopra dell’involucro…

E: Che quindi  risulta eccedente. Mi pare che la questione della ‘decorazione’ abbia una doppia radice, una negativa, perché vedo che tutti spesso giudichiamo in maniera avventata: quando vedo un’opera corro subito a cercare nello schema della negatività, l’opera ti spinge a cercare una negatività soprattutto quando sta cercando di dire qualcosa, quando è veramente efficace ti spaventa. Se invece coglie rapidamente il segno, nel senso della piacevolezza, della rispondenza al gusto, delle aspettative del visitatore, ti piace perché non disturba; se ti disturba immediatamente cerchi di neutralizzarla, il che non vuol dire che ogni volta che si denigra un’opera questa è un’opera d’arte formidabile, ma ormai quando guardo il lavoro degli altri ho questo senso sveglio, quando un’opera non mi disturba ci devo pensare due o tre volte, può essere un cattivo segno, ma basta continuare .

L’altra radice è legata ad una esperienza di qualche anno fa, quando ho condotto una serie di escursioni in vecchie masserie abbandonate. Era molto piacevole, queste masserie però stavano per scomparire, perché soggette alla legge per la ricostruzione del dopo terremoto. Erano quasi sempre stati costruiti nuovi edifici sostitutivi e per ottenere il “collaudo” bisognava che si provvedesse alla demolizione dei vecchi manufatti. Entrando in quelle case, ho rivisto, come le vedevo nella mia infanzia, le stanze verdi, le stanze rosa o celestine. Non ho potuto non pensare che i contadini degli anni ‘50 e ‘60 sono stati gli ultimi esecutori di un programma decorativo di memoria aristocratica (pensiamo ai colori della reggia di Caserta). Non si trattava ovviamente di un gusto decorativo autonomo, essi ne erano gli ultimi custodi, complice il fatto che forse proprio quei pigmenti fossero i  più facilmente reperibili sul mercato nelle periferie agricole del meridione.

Questa cosa mi ha molto impressionato: la grande espansione del ceto medio, la trasformazione anche dei contadini in impiegati che lavorano negli uffici dei comuni, al catasto, l’evoluzione e l’omologazione del gusto, la televisione, anche il contatto con il gusto prevalente dell’arredamento e della decorazione, ha fatto scomparire dalle case contadine le ultime tracce di scelte che apparivano forti e immutabili.

In occasione di un intervento in provincia  di Como, in una mostra collettiva a casa di Ausilia Binda, dovendo collocare uno dei miei lavori con i quadratini colorati in una stanza di una di queste vecchie case contadine dove da decenni la cultura del bianco aveva già soppiantato la cultura del colore (ma nella stanza c’era un bel camino di granito, quella stanza aveva un carattere!), dipinsi i muri di un celestino squillante, poi installai il lavoro, intitolando l’opera: “la stanza del contadino colto”.

Il programma decorativo non è una cosa così semplice: è l’espressione di tutta una civiltà che obbliga i propri cittadini, gli abitanti di un certo luogo, a rispondere a certi dettami estetici, ha a che vedere con la politica e con l’antropologia. Oggi, se devi figurarti una casa di campagna, pensi subito all’arredamento scadente, come ad una specie di scoria del volano del gusto della civiltà contemporanea, il quale per forza centrifuga proietta verso l’esterno i resti immondi del centro. Mentre invece l’austerità e la fondatezza del programma decorativo contadino, fino agli anni ‘50 richiama un’integrità e anche un certo tipo di naturalità dell’aggregazione sociale che viveva di queste cose e dentro di esse.

A: In alcuni casi quella che tu chiami naturalità era anche  studiata, per esempio quell’azzurro acceso si usava quasi sempre in cucina, essendo un colore respingente per alcuni tipi di insetto.

E: E’ vero, però la cosa non era stata studiata dagli applicatori. Erano tracce inconsapevoli di un’intelligenza che aveva lavorato in precedenza; fin quando non sono state spazzate via hanno conservato uno spessore  che veniva dalla storia. La gente se ne è vergognata, una volta raggiunto un certo benessere, ed ha abbandonato tutto a favore di altri modelli molto forti.

Nella mostra sugli anni ’70 che abbiamo allestito alla Mostra d’Oltremare (ndr ), appare chiaro che nel momento in cui chi, come me, viveva quel tempo dalla parte del movimento aveva la sensazione che ci fosse un centro che valeva la pena di essere vissuto,  e poi c’era invece La rivoluzione siamo noi di Beuys. Se ne avessimo avuto cognizione ci sarebbe apparsa una cosa curiosa, fastidiosa, l’avremmo presa con sufficienza se non con aperta avversione, come un’espressione di individualismo piccolo borghese (quell’uomo, con il cappello a falde, una persona stravagante, che marcia da solo e afferma che “la rivoluzione siamo noi”); era una maniera goffa di stare dalla nostra parte. Ma alla fine, mentre quell’opera resta, molto di quello che eravamo noi non è restato. Gli artisti erano in grado, avevano la possibilità di toccare materiali molto scottanti, come oggi sarebbe scottante, secondo me, parlare  di tante cose che non sono di attualità immediata. Credo che quello che noi facciamo ha a che vedere con l’integrità dell’uomo, l’attraversamento, integro, di un nucleo dentro la storia presente, che cerca di imporsi come l’unica realtà come l’unica verità, come l’unica possibilità.

A: Siamo partiti dal discorso della decorazione per arrivare al discorso dell’integrità, un discorso puramente estetico. Tu stesso mi hai raccontato del godimento puramente estetico che hai provato quando hai visto un lavoro di Wolfang Laib a Parigi, poi abbiamo parlato della sensazione di integrità che ti ha preso entrando in queste case rurali sentendo come sono ancora legate ad un senso; che questi  partiti decorativi erano legati ad un senso, non simulacri come possono essere i quadrucci comprati agli angoli delle strade o gli stencil sul muro. Lì c’era una qualcosa di non posticcio. Io ho pensato che tu mi stessi parlando di questo nocciolo duro che oggi è difficile affrontare che è il discorso, o la domanda: esiste l’arte? Esiste la bellezza?

A un certo punto, mentre parlavi, è avvenuto lo scivolamento dal discorso della decorazione, della percezione di tipo estetico, al discorso della percezione esistenziale, del vivere politico - utilizzo il termine politico nella sua accezione migliore, dell’essere in un ambiente sociale - credo che questo continuo scorrere tra i due  piani sia un aspetto tipico del tuo lavoro.

Un tuo denigratore mi ha detto che il tuo lavoro non gli interessa perché c’è una confusione tra l’arte e la politica

E: E’ probabile, però per un periodo abbastanza lungo ho relegato l’attitudine politica in una sfera autonoma, ho cercato di non utilizzarla nel lavoro.

A: La mia è una domanda provocatoria, io non so bene  se sia così, si tratta di una sensazione che ho avuto grazie al tuo stesso scivolare da un capo all’altro del discorso.

 E: Ho cercato di mettere a punto una risposta di carattere generale quando, in occasione di una mostra in sostegno della difesa di Adriano Sofri, mi sollecitarono un piccolo scritto che rispondesse alla domanda: quale rapporto tra arte e impegno?

Si trattava di un argomento per me talmente spinoso che quando avevo avuto la sensazione di essere messo alle strette avevo cercato di lanciare segnali di depistaggio titolando “désengagé” una serie di mostre (1998 - 1999, Montréal, Québec, Sherbrooke). Dato il contesto nel quale mi si chiedeva di pronunciarmi, cercai di rispondere parlando di questo rapporto con l’impegno, come di un rapporto dentro-fuori, libertà di farlo e non farlo, di non porsi il “problema” di intervenire o non intervenire politicamente.

Detto questo, non ho mai pensato, e non pensavo allora, che l’aspetto politico investisse il lavoro, ponevo il mio interesse, la mia attitudine politica sullo stesso piano dell’attitudine politica di chiunque che, pur facendo un’altra professione, esprime le sue posizioni. Mi dicevo: non esistono gli artisti impegnati, ma uomini impegnati, questo non deve fare per forza entrare nell’opera l’impegno politico e civile dell’artista.

A:Non è come quello del medico che a un certo punto stacca… Ma in fondo non so se esiste un lavoro dove questa separazione sia possibile…

E: E’ però auspicabile. Esplicitamente, quando ci fu l’occasione, mentre cominciava la campagna per la concessione della grazia a Sofri, in occasione della Fiera dell’Arte a  Napoli, nella mostra che curò Marco Meneguzzo, invece di presentare un lavoro presentai una scritta: “Sofri Bompressi Pietrostefani”.

In quel caso io risposi ad un’urgenza, era il momento in cui dare la maggior visibilità possibile a questo problema. In un primo tempo avevo deciso di dedicare questo spazio, quindi esplicitamente rinunciare alla partecipazione con un’opera alla mostra, in secondo momento ho un po’ distillato questa intenzione ed ho scritto  questi nomi. Cos’era? Un’opera concettuale? Era la mia necessità di dire questa cosa. Ora, io non mi devo porre questo problema: dire o non dire, fare o non fare.

A: Se lo deve porre chi lo legge?

E: Credo che nel tempo il problema dello statuto di quell’oggetto diventi sempre meno importante: che quell’opera, quell’oggetto, quel gesto abbia uno statuto od un altro, non è molto importante.  E’ una necessità di catalogazione a valle del processo creativo e anche una differenza di incidenza di una qualità in un lavoro o in un altro.

A: Da quando per la prima volta sono venuta a vistare il tuo studio di via Saverio Gatto, ho avuto questa duplice sensazione rispetto al tuo lavoro. Da una parte, un fortissimo interesse e anche la sensazione che si trattasse di un lavoro importante, dall’altra parte un rischio, che io ho sempre sentito,  che il mio  tipo di lettura fosse troppo formalista, cosa che appartiene molto alla mia storia e alla mia formazione. Ma ho avuto sempre parallelamente la sensazione che ci fossero degli aspetti del tuo lavoro che mi sfuggivano, e uno di questi è proprio la tua capacità di lavorare sul sistema, su un sistema di relazioni.

E: Devo dire che forse per le cose , non so dire se le migliori, ma per le cose che io ho sempre pensato più riuscite, il punto di partenza non è mai molto intelligente, le cose si complicano strada  facendo, si arricchiscono, accolgono come una crosta una stratificazione di pensieri, come se il pensiero restasse sempre parallelo a qualcosa che ha a che vedere molto più con la sfera sensibile che con l’intelligenza. Per esempio del lavoro dei quadratini: prendiamo come assunto che io non mi ponga il problema di come parta il lavoro sulla monocromia dal quale discende il lavoro.

Sto facendo questo lavoro e ho bisogno di fare dei  disegni preparatori, di provare il rapporto tra diversi campi colorati. Scatta a un certo punto la curiosità di vedere: se le provassi tutte le combinazioni, che ne uscirebbe? Questo lavoro,  che poi mi ha preso per quattro o cinque  anni, un anno solo per un’opera (quella esposta da Theoretical Events per la prima volta nel gennaio 1996), nasce semplicemente da una curiosità, da una proiezione immaginativa: volevo vedere com’era. Ma per riuscire a vedere com’era, bisognava realizzarlo e trovare il mezzo tecnico-matematico per poter  trovare veramente tutte le combinazioni, per poter chiudere il progetto in una determinata quantità. Quindi c’è una enorme sproporzione tra l’intuizione, il punto di partenza e la realizzazione, le tecniche necessarie, l’applicazione, il tempo, in essi si situa questo parallelo scorrere di pensieri e di idee sul lavoro, che però è stato acceso da qualcosa che ha a che vedere molto poco con l’intelligenza.

A: Allora, a questo punto, mi ricollego a quel discorso non concluso sulla decorazione, in questo procedere su un’idea sta anche la tua attitudine che è specificamente legata, come  hai detto tu stesso, agli aspetti sensibili. Tu parti da un’intuizione, sia quando realizzi la serie dei quadratini, le tue forme di pittura con la cera o, in maniera quasi occasionale, quando realizzi forme di oggetti riconoscibili. Quelle forme non avevano un senso aprioristico, avevano un senso relativo alle dimensioni, quando invece questa stessa attitudine l’hai portata da quella forma geometrica capostipite degli ‘oggetti platonici’, la sedia, fino alla zanzara stessa. C’è però sempre questo sfalsamento tra la tua intuizione e l’aspetto sensibile del tuo  lavoro che si fa con una qualità visiva, ‘decorativa’.

E: Mi contraddico volentieri, ritornando  al concetto di decorativo, io perché uso il concetto di decorativo a proposito ai muri di zanzarine? Lo faccio perché è il modo per togliere dramma a un lavoro. Le zanzare: sciame oppure la decorazione a quinconce. C’è una bella differenza: lo sciame è drammatico, c’è un’azione, mentre la decorazione tende ad eliminare il sovrappiù di dramma. Però sto anche compiendo un inganno, perché generalmente intendiamo decorazione qualcosa entro la quale comodamente adattare la nostra vita: la decorazione è quel di più confortevole. Invece non c’è niente di meno confortevole dell’idea della zanzara, ancora qui come nella mostra di Theoretical Events (1996 Napoli, ndr), il rapporto tra il caldo e il freddo, il caldo che viene dal mezzo intelligente, cioè la stufa, e il freddo che viene dal mezzo sensibile, intelligenza e sensibilità si rovesciano. Nel concetto dei quadratini colorati c’è un sovrappiù di intelligenza che però è esposto in maniera sensibile: i quadratini sono oggetti “sporchi”, irregolari, le carte sono incollate abbastanza disordinatamente eccetera, mentre il caldo, che generalmente è accostato alla sensibilità, è prodotto attraverso un oggetto rigorosamente tecnico: fili di acciaio, cavi elettrici, resistenze… La tecnologia che produce il calore: cioè, in una specie di gioco di parole, quando tu parli di caldo, ti disponi a veder qualcosa di emotivo.

Nel caso delle zanzarine torna lo stesso meccanismo: la cosa che si enuncia e si contraddice…

A: Anche nelle sculture, nella zanzara grande, nella sedia, c’è questo aspetto?

E: Già nella sedia c’è questo aspetto: non c’è nessun tentativo di trompe l’oeil, tant’è che essa ha dimensioni leggermente maggiori della norma e l’armatura metallica non è completamente invisibile; molto diverso è il caso della sedia di bronzo di Job, in tutto simile ad una sedia Thonet…

A: Ti interessava che si vedesse l’artigianalità e il fatto che fosse un oggetto non utilizzabile.

E: Il rapporto tra l’essere un cosa e l’essere il contrario, era dato proprio dall’evidenza dell’inutilizzabilità.

A: Ma mentre il discorso sulla sedia era lampante, nel senso della stessa attitudine formale, che si leggeva negli elementi del lavoro, il passaggio alla zanzara acquista un senso politico. Cercando di mettere insieme i discorsi che abbiamo fatto fin ora, in questa ultima serie di lavori mi sembra che queste due parti abbiamo potuto riunirsi. Lì eri l’artista che con l’altra parte della tua vita non aveva niente a che vedere, tanto è vero che rifuggivi dall’utilizzare elementi che potessero lontanamente essere ricondotti ad un pensiero della realtà. 

E: Quello che dicevo era relativo alla questione della decorazione: quando espandi la pittura su tutto l’ambiente, non hai fatto un quadro, non hai chiuso, non hai più lo spazio di  concentrazione che è classico del quadro, lo spazio in cui tu concentri la cosa che devi dire e le persone sono invitate a selezionale attraverso il loro modo di vedere quella cosa. E quindi ripensando agli ambienti di Sant’Elmo ho pensato alle questioni dello spazio abitato dall’arte. Ad un desiderio di ordine e disordine, comunque un rimescolamento delle carte che l’opera impone quando investe uno spazio. Uno stare alle sue regole, senza arrendersi alla loro tirannia. Una forma di dialogo che coinvolge l’abitare lo spazio da parte dello stesso visitatore, che diventa così interlocutore dell’opera.