Eugenio Giliberti


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Caro Eugenio, in alto nel castello… - Testo in catalogo per la mostra eugenio giliberti c.v. curriculum vitae

 

Ancora una volta al castello: in alto, sopra l’immensità di un’umanità che segue il limite di un mare che preme l’orizzonte. La prima volta in quelle geometrie quasi vent’anni fa, con un artista milanese che spero tu ami quanto me. La mostra poi non si fece e il castello si aprì all’arte molti anni dopo. Mi rimasero solo qualche foto, le sue parole e il suo entusiasmo per quegli spazi ove avrebbero dovuto essere collocate opere che poi videro la luce nella reggia sul monte di fronte. L’ultima volta a vedere le due grandi zanzare che replicasti a Prato. Stavolta per le “zanzarine”, come le chiami tu.

 

Un caldo veramente anomalo. Il sole sembra più forte. Il riverbero della pietra acceca e se si guarda il mare diviene insostenibile. Le isole galleggiano pallidissime su di un orizzonte oramai inesistente.

 

Entrare nella stanza è piacevole: quasi fresco. Sono curioso di scoprire queste tue nuove creazioni. Alle pareti, le immagini delle zanzare mi avvolgono e mi sorprendono per la loro densità: esse ricoprono tutta la superficie muraria come fosse un antico gioco decorativo. Mi parli di cielo stellato come nelle sale gotiche, in quelle cappelle visitate insieme in Umbria. Sento differente lo spazio: qui non mi sembra simbolico e le stelline, mutate in antipatici insetti, non sgomentano né elevano e la geometria (solo geneticamente modificati potrebbero disporsi in siffatta postura) allontana il terrore: la mimesi è finzione e lo sguardo non trema. Sento però l’impossibilità della condivisione di un destino con loro. Le zampette bianche e rosse riportano alla pittura anche per il trompe l’oeil che cattura, che accoglie che emoziona e crea densità, appunto. Si sta bene qui.

 

Della decorazione abbiamo parlato. Mi sembra un’operazione che scaturisca da una speculazione sulla pittura che da tanto frequenti e pratichi; se di decorazione si vuol parlare dobbiamo intenderla con questi connotati che la riconducono ad una cosciente presenza. Come nelle due altre opere che sono pittura nello spazio. Esse sono poste sull’asse trasversale e, una volta entrati, al centro della sala si sente l’attrazione dei due poli, creati dalla pittura tridimensionale, come in una prospettiva a doppia fuga. Lo spazio sembra precedere anche in questo il pensiero rinascimentale come se si dovesse rimarcare una differenza, una distanza forse, per appropriarsi di nuove definizioni. Ne abbiamo parlato e ancora ne vorrei.

 

Con ordine: una figura bruna in piedi leggermente avanzante nello spazio. Che non sia tu mi sembra chiaro (non mi sembra possegga la tua struttura proporzionale, tu sei indubbiamente più bello…). Anche vicini le somiglianze si stemperano ed è la pittura tridimensionale che, ricercando la forma umana come figura “platonica”, attrae il pensiero e poi lo sguardo; come gli oggetti di alcuni anni fa. Parti da te stesso come modello primo del corpo. Ricordo nelle grotte cantabriche le prime immagini in negativo delle mani dei preistorici Notai allora la volontà di creare un alter ego ideale sul quale esercitare la possibilità di una bellezza.

 

La tua innata curiosità conduce, come nei quadratini colorati, ad “esercitare l’esercizio” non più sull’oggetto ma su di un successivo elemento del regno animale. Il corpo come s-oggetto finale.

 

Il kouros è sempre in agguato: il tuo passo è più incerto di quello dell’homme qui marche o delle forme uniche; non discende le scale ma possiede la medesima consapevolezza. Il peso è già sulla gamba destra, leggermente flessa da una parte, che avanza come in un tendere a, un tendere verso un luogo che non si guarda ma si pensa. La testa è rivolta altrove come se il traguardo fosse ancora nel dubbio e la circolarità del percorso ancor pieno di ritrosie. Medardo (piuttosto del pop George) ripensato nella malinconia di un’estraneazione dell’espressività. Ogni volta alla partenza per nuovi traguardi.

 

Il sesso manca; umano senza connotazioni o distrazioni dello sguardo dall’insieme. Anche il volto è fortemente anonimo. Penso ai bronzi e ai marmi delle sale del Museo. In città.

 

Simmetrico rispetto alla perpendicolare dell’ingresso una forma è posta a terra. Già ti ho chiesto il perché della base: non mi convinci pienamente ma hai ragione tu con la forza della pittura. Mi interessa capire la volontà di relazionare l’intimità (comunque e inevitabilmente) del proprio io anonimo con la forma del luogo: il castello che ci contiene diviene oggetto contenuto. Un “here you are” tridimensionale, quasi un semifreddo nel miraggio prodotto dalla calura esterna. Procedi verso le estreme conseguenze per concludere un discorso un tempo necessario. L’oggetto platonico diviene forma del tutto cambiando scala di rappresentazione per giungere ad un’esem-plificazione dell’universalità del processo creativo che enunci. Forse giungerai ad un pianeta platonico che ci contiene, ma non credo che sia necessario dopo le basi magiche. Non per te.

 

Nella piazza antistante un pozzo diviene tenda geometrica custode di un meccanismo strobosco-pico nel quale l’insetto si mostra in un semovente volo; l’osservatore introduce il capo nell’oscurità per sorprendersi della visione. Tutto diviene intimo in un tête-a-tête giocoso con l’opera.

 

Sugli spalti, verso il mare, una piccola stanza è decorata come le pareti della sala grande. La luce solare molto forte e il bianco anche a terra rendono poco percepibile la consistenza volumetrica e superficiale dei muri. Le immagini degli insetti paiono maggiormente sospese in uno spazio immateriale, quasi metafisico. Gli enunciati delle opere viste più in basso risultano ribaditi in modo differente ma con la medesima tensione.

 

In un quarto luogo sugli spalti verso la città avviene un fatto differente. La stanza, una grande garitta cubica, contiene un alto volume di poco più stretto dello spazio che lo contiene. Esso è ruotato in modo da permettere il passaggio verso la finestra sul panorama. Il volume è pittorico: oramai abbandonata una vocazione rap-presentativa pare dover essere necessaria l’essenzialità suprematista della forma pura. Il colore è steso come sempre con un tempo che lo rende partecipe della superficie. Il rosso, visibile la notte dalla città, diviene inedita indicazione di una presenza, forse fastidiosa o indifferente ai più: non distrae né consola ma solo afferma.

 

 

Allontanandomi dalla città penso a lungo a ciò che ho visto e scrivo attento al tremore del mezzo. Sono meravigliato e convinto sempre di più da un’emozione che travalica il pensiero. Cerco in alto nel cielo la sagoma del castello che mi sembra virare lentamente verso il colore rosso.

 

 

 

 

 

 

 

 

Aldo Iori