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		Sylvie Parent intervista Eugenio Giliberti 
		
		
		  
		
		
		SP: In questa mostra presenti due insiemi di lavori diversi. Puoi 
		parlarci, per cominciare, dei "quadratini colorati", il lavoro su carta 
		quadrettata che tappezza le pareti della galleria? 
		
		
		  
		
		
		EG:Questo progetto origina da una curiosità, una voglia di vedere. 
		Lavoravo su moduli monocromatici estroflessi e preparavo una mostra di 
		trittici. La mia strumentazione tecnica mi consentiva di fabbricare 10 
		colori alla volta. Da questi, quindi, formavo tre trittici. Eseguivo un 
		certo numero di composizioni su carta prima di procedere al lavoro su 
		moduli, molto sinteticamente, com'è normale, ma mi domandavo come 
		sarebbe stato se avessi provato tutte le combinazioni possibili. 
		Partendo da questi dati, feci dei calcoli: le combinazioni possibili 
		erano 75.400 per un totale di 680.400 superfici colorate. 
		
		
		La dimensione di un tale progetto era tale da uscire dal problema 
		abituale della selezione dei colori nel disegno preparatorio. 
		
		
		Un lavoro simile si affranca dall'asservimento e acquista la sua 
		personalità di opera. 
		
		
		  
		
		
		SP: Hai voluto dare una struttura al lavoro? Organizzarlo? 
		
		
		  
		
		
		EG:E qualcosa che si è prodotta naturalmente. Conservo i miei lavori 
		precedenti in imballaggi aperti, ogni elemento partecipa così ad un 
		ritmo ed ad un insieme sempre visibili. Già lì si esprime il desiderio 
		di organizzare, classificare. 
		
		
		Fa parte della medesima attitudine la conservazione degli scarti e dei 
		numerosi utensili fabbricati espressamente per le necessità del lavoro. 
		Dopo mesi, o anche anni, questi oggetti prendono vita autonoma e 
		diventano altro. 
		
		
		  
		
		
		SP: Questo significa la fine di questo progetto? Dove ti porterà? 
		
		
		  
		
		
		EG:Espongo per la prima volta i 680.400 quadratini colorati in una 
		stessa sala con oggetti al suolo, gli oggetti che ho fabbricato negli 
		atelier de l' Oeil de Poisson a Quebec. Il lavoro dei quadratini 
		colorati rappresenta un'esplosione ed una definizione ultima. Ha messo 
		fine alla serie delle superfici monocrome convesse. Il fatto che mi 
		abbia preso tanto tempo (da dicembre 1994 a gennaio 1996) è stato forse 
		determinante in questo senso. 
		
		
		Sono passato da una scala ad un'altra, da macro al micro, dal quadro ai 
		quadratini, dove solo la dimensione del progetto ripristina la grande 
		scala. 
		
		
		  
		
		
		SP.: Come se avessi già realizzato in potenza tutte queste pitture, come 
		se esse fossero già contenute nel progetto. Allora, come fare a 
		stabilire il legame tra i volumi ed il grande disegno? 
		
		
		  
		
		
		EG:Qualche anno fa sono passato dalle pitture estroflesse alle grandi 
		lenti che presentavo al suolo. Si trattava di un passaggio dove la 
		pittura, uscita dal piano, secondo la curva della convessità, 
		abbandonando l'idea di rovescio, s'impone nell'occupazione dello spazio. 
		
		
		Qui, da un lato la pittura esplode in centinaia di migliaia di 
		quadratini colorati, dall'altro prende definitivamente posizione/volume 
		fuori della superficie. Questo processo, iniziato con le lenti, poi 
		proseguito con la pittura senza supporto, è stato anche aiutato da 
		qualche incidente. Facevo degli esperimenti per la fabbricazione di 
		pitture senza supporto, senza la struttura in legno che utilizzavo 
		prima. La cera dell'encausto permetteva alla pittura, dato un certo 
		spessore ricavato dalla sovrapposizione di strati, di essere autonoma. 
		Per errore riscaldai troppo una di queste pitture che si piegò su se 
		stessa. Poco dopo aver realizzato così la pittura gialla piegata, 
		realizzai, questa volta intenzionalmente, la pittura rossa arrotolata 
		che sotto i miei occhi si rivelò come un tappeto. Un oggetto, a partire 
		da una forma e da un concetto assolutamente astratti.  
		
		
		  
		
		
		SP: Cosa hai pensato quando hai visto 
		
		
		apparire degli oggetti, tu che realizzavi delle pitture monocrome 
		astratte? 
		
		
		  
		
		
		 EG:Ero meravigliato e affascinato: la pittura aveva veramente 
		conquistato lo spazio ed ora era libera di incorporarsi in oggetti. 
		Chiamo questi oggetti platonici perché non sono oggetti quotidiani. Gli 
		rassomigliano. Sono la realizzazione del sentimento di questi oggetti 
		attraverso un disegno nello spazio, fatto di fil di ferro, e la pittura. 
		
		
		  
		
		
		SP: Continui a chiamarli pitture perché sono realizzati come dei dipinti. 
		Parli di disegno nello spazio realizzato con fil di ferro, utilizzi del 
		tessuto per realizzare delle superfici che poi dipingi con l'encausto... 
		
		
		  
		
		
		EG: Utilizzo il minimo indispensabile per armare gli oggetti per 
		conservare questa idea di pittura, e poi sono sempre dei monocromi, come 
		il lavoro precedente. 
		
		
		  
		
		
		SP: Questi oggetti hanno in effetti qualcosa di strano, le loro forme, 
		le loro dimensioni, non rispettano a pieno gli oggetti che rappresentano. 
		Per esempio, il fil di ferro resta evidente alla base dei piedi delle 
		sedie, le stesse sono di una dimensione leggermente superiore alla norma. 
		
		
		  
		
		
		EG: Non voglio fare dei trompe l'oeil. Non voglio imitare. Voglio che 
		questi oggetti restino pittura, artificio. Solo un visitatore molto 
		distratto può avere l'impulso ad adoperarli, per esempio, sedendosi su 
		pittura in forma di sedia. 
		
		
		È la realizzazione dell'idea di questi oggetti semplici che mi interessa.
		 
		
		
		  
		
		
		SP: Perché scegliere questi oggetti?  
		
		
		  
		
		
		EG:Sono passato dalle forme semplici, il quadrato, il cerchio, a 
		qualcosa di più complicato, ma queste nuove forme devono conservare la 
		loro universalità e gli oggetti che rappresento sono oggetti universali 
		nella loro semplicità di vaso, di sedia, di quadro o tappeto. 
		
		
		  
		
		
		SP: Nella scelta degli oggetti, come nella maniera di farli, il tuo 
		lavoro conserva quella parentela, di cui già avemmo modo di parlare, con 
		i mestieri artigiani, il formatore, l'ebanista, il vasaio. 
		
		
		  
		
		
		EG:Sono sempre stato affascinato da certi gesti, come quello 
		dell'ebanista: gesti che tutti possono fare, ma che solo se fatti da lui 
		sortiscono la magia di una superficie levigata e specchiante. 
		
		
		  
		
		
		SP: L'encausto, che tu utilizzi crea l'impressione di una materia 
		vivente sotto un pellicola specchiante e produce una situazione di 
		turbamento per lo spirito e per i sensi. Questo trattamento della 
		superficie realizza una tensione tra presenza materiale e immaterialità. 
		Puoi spiegarci questo?  
		
		
		  
		
		
		EG:Cerco soltanto di esaltare la capacità espressiva di un certo 
		materiale, la sua verità, sulla quale ho scommesso al 
		
		
		momento di decidere di utilizzarla. Ho optato per l'encausto dopo una 
		ricerca che ha incluso anche materiali più moderni, come le gomme al 
		silicone, le resine, le pitture acriliche industriali, etc. La mia 
		riduzione di questa tecnica si realizza attraverso un processo 
		strutturato molto lungo, in cui la fase di raffinazione e di politura è 
		particolarmente pregnante e attraverso la quale l'encausto rivela le sue 
		sorprendenti qualità. Ne risulta questa tensione evidente tra la 
		pittoricità della materia, percepita come interna, e politura della 
		pellicola esterna, propriamente dovuta alle qualità dell'encausto, ed 
		una tensione addizionale, che è un prodotto involontario (per scarto) 
		dovuto alla percezione della fragilità del risultato che conduce ad uno 
		stato di sospensione. 
		
		
		  
		
		
		SP: All'origine di tutto il lavoro è evidente l'importanza del colore. 
		Puoi dirci perché decidesti di realizzare dei monocromi? 
		
		
		  
		
		
		 EG:I colori sono la pittura e, in questo senso, documento di una 
		tradizione eroica. Decisi di lavorare con un colore per volta per 
		esaltare il piano di congiunzione dell'esperienza del creatore con 
		questa tradizione, per evitare ogni tentazione di racconto e liberare la 
		purezza dell'intenzione. 
		
		
		  
		
		
		SP: Ora, vorrei tornare ai quadratini colorati, come al legame ed allo 
		scarto che si possono stabilire con gli oggetti volumetrici che hai 
		realizzato. A causa del gran numero, del carattere sistematico e della 
		griglia che li accoglie, i quadratini fanno pensare a tutti quei sistemi 
		matematici che spariscono al servizio dell'attività umana. Penso 
		all'informatica per esempio, alla tecnologia in generale. Il lato molto 
		fisico, molto sensuale degli oggetti, si differenzia anche se c'è un 
		legame di materia tra i due universi, costituito dall'uso dell'encausto. 
		
		
		  
		
		
		EG:Credo che la dimensione del lavoro renda questo più evidente, ma la 
		matematica è immediatamente coperta dalla fattura. L'esecuzione dei 
		quadratini è imperfetta, anche se il sistema è esatto. E la stessa 
		risorsa che genera il sistema scientifico, l'intuizione è tutt'altro che 
		geometrica. Il mio lavoro è fatto di queste considerazioni. Grazie ad un 
		lavoro esecutivo molto lungo, originato dalla voglia forte di vedere, il 
		pensiero si insedia, possiamo dire, in parallelo. 
		
		
		  
		
		
		SP: Per finire: perché hai voluto dare questo titolo désengagé. Di quale 
		engagement si tratta e come il désengagement si esprime nella mostra? 
		
		
		  
		
		
		EG:In un primo tempo avrei voluto intitolare la mostra dégagé e cioè 
		svincolato, liberato, che è lo spirito in cui mi sento ad ogni svolta 
		del mio percorso creativo. Ogni svolta è un processo di liberazione 
		difficile, e sempre di più andando avanti con gli anni, perché è una 
		liberazione da me stesso, dal più severo guardiano. Alla fine ho optato 
		per il termine désengagé per l'aggiunta di ambiguità che è insita in una 
		parola, che quasi ricalca l'altra nel suono e nel senso. Per me che non 
		sono francofono, quel sen ridondante congiunge i due significati in 
		maniera musicale. Naturalmente c'è una relazione tra il titolo e quello 
		che mostro, in particolare bisogna immaginare cosa significa restare 
		tesi come una molla per 14 mesi solo e unicamente su un lavoro, e quanto 
		sia quindi liberatorio uscire fuori da questa disciplina (engagément) 
		finalmente vedendo insieme tutti quei foglietti di carta sui quali, 
		obbedendo ad un tracciato geometrico-matematico, avevo lavorato 
		combattendo la noia e le distrazioni. E questa conclusione mi désengage: 
		ha disimpegnato ed aperto il mio campo poetico. 
		  
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